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Bollettino ADAPT 21 gennaio 2020, n. 3
Nei prossimi mesi capiremo i dettagli, ma la decisione, all’interno dell’accordo FCA-Psa, di includere nel Consiglio d’amministrazione due membri in rappresentanza dei lavoratori è una novità che non può passare in secondo piano. Ad oggi si sa che la scelta è una conseguenza di una norma che obbliga una società nata dalla fusione di garantire il diritto alla partecipazione nel caso in cui in una delle società che si fondono sia presente. Ma fino a quando non conosceremo le modalità di elezione di questi rappresentanti e i loro compiti sarà difficile fare paragoni con altri modelli di partecipazione dei lavoratori, primo tra tutti quello tedesco e capire se tutto si tradurrà in un mero adempimento formale o in qualcosa di più, come è auspicabile.
Quello che conta al momento è l’aver reintrodotto con forza il tema stesso della partecipazione, centrale per la gestione della complessità nelle imprese. Imprese che si trovano ad affrontare una transizione verso nuovi modelli organizzativi in grado di sostenere la forte domanda di flessibilità proveniente sia da una maggiore competizione internazionale sia dai nuovi criteri di scelta dei consumatori che tendono a richiedere prodotti sempre più personalizzati. All’interno di questo mutato contesto, che introduce sia nuove tecnologie che nuovi processi produttivi, il ruolo dei lavoratori è anch’esso trasformato. Il passaggio è quello da un elenco statico e standard di mansioni all’introduzione di veri e propri ruoli che, come ha scritto Federico Butera, consistono in un copione che il lavoratore può sempre più scegliere come recitare. Questo genera una maggiore attenzione non tanto al tempo di lavoro come unico parametro di retribuzione ma ai risultati e agli obiettivi raggiunti. Ma se non vi è alcuna forma di partecipazione dei lavoratori alla definizione delle modalità di organizzazione del lavoro questa nuova flessibilità retributiva diventa una richiesta a senso unico con il rischio di generare atteggiamenti di resistenza, comprensibile, da parte dei lavoratori stessi. Rinunciare infatti alla “tranquillità” di processi produttivi che garantivano sicurezza retributiva, pur spesso in cambio di attività disumanizzanti, richiede in cambio la possibilità di partecipare ai nuovi processi non solo come soggetto passivo ma attivo. Ma non si tratta solo di una questione di giustizia e di reciprocità, è in gioco anche l’efficienza di questi nuovi processi produttivi. Se davvero si vuole immaginare un panorama industriale in cui ai lavoratori verranno richieste maggiori competenze e quelli che non riusciranno a riqualificarsi saranno presto sostituiti da automazione e algoritmi la partecipazione deve diventare tra i temi cardine da affrontare. Infatti la mancata collaborazione e il mancato esercizio delle proprie responsabilità da parte di lavoratori sempre più competenti e strategici in una organizzazione orizzontale e meno verticale genera molti più problemi di quanto poteva accadere nel modello fordista. Nella vecchia catena di montaggio le basse competenze richieste ai lavoratori facevano sì che fosse più semplice rinunciare a un singolo e sostituirlo. Nello scenario che stiamo delineando non sarà certo più così semplice e rinunciare a un lavoratore con competenze strategiche significa un danno spesso ingente.
Non possiamo quindi né dare per scontata l’introduzione, come nel caso FCA-Psa, di elementi di partecipazione (in questo caso più strategica che organizzativa) né accontentarci di una loro introduzione formale. Prendere sul serio la partecipazione, come avviene in forme diverse in Germania e in Svezia, significa prendere sul serio la sfida della partecipazione organizzativa e quindi il cambiamento del lavoro, che è tutt’altro che facile da affrontare e mette in crisi vecchi paradigmi del mondo industriale che caratterizzano la quasi totalità delle imprese di oggi. La strada più facile è quella di pensare che basti una legge per calare dall’alto la partecipazione. Potremmo pensarci, ma prima e soprattutto nel breve termine sono gli attori delle relazioni industriali (sindacati e imprese) che devono aprirsi alla sperimentazione di modelli partecipativi, a partire da quelli che governano l’organizzazione del lavoro, vero snodo della IV rivoluzione industriale in azienda. Così le relazioni industriali, che molti danno per morte, potrebbero riemergere non come un cimelio del passato, ma come lo strumento cardine per accompagnare imprese e lavoratori verso il futuro.
Presidente Fondazione ADAPT
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2020