Obbligare i disoccupati a cercare lavoro, serve?

All’avvio della sperimentazione dell’Assegno di ricollocazione (ADR) è emerso come oggetto di dibattito tra Stato e Regioni, il tema della “condizionalità” (ovvero che a fronte della percezione di sussidio si accetti di seguire un percorso di politiche attive del lavoro): per alcune Regioni non aver reso “obbligatorio” l’accettazione dell’ADR da parte dei beneficiari della Naspi selezionati a partecipare alla sperimentazione comporterà un “clamoroso” flop.

Ebbene sottolineare, che la condizionalità in Italia, indipendentemente dall’impatto occupazionale che produce, rappresenta sicuramente un ottimo strumento di contrasto al lavoro sommerso dei destinatari della Naspi, soprattutto se sono obbligati a seguire corsi di formazione o svolgere attività di ricerca del lavoro presso i Centri per l’impiego durante il giorno, tuttavia è lecito chiedersi se la condizionali riduca concretamente la disoccupazione oppure sia fonte di deprivazione e conduca i disoccupati non nel lavoro, ma nell’inattività.

 

Come si realizza la Condizionalità in Germania e Regno Unito

Innanzitutto prendendo ad esempio Germania e Regno Unito è possibile fornire un quadro di cosa significa realizzare la “condizionalità”. In entrambi i paesi il disoccupato, se desidera ricevere il sussidio, deve recarsi il prima possibile al Centro per l’impiego di competenza, in Germania addirittura prima del licenziamento. In entrambi i paesi esistono severi obblighi di cooperazione, ad esempio:

• presentarsi agli appuntamenti fissati;
• concordare il piano di azione;
• partecipare alle misure ivi contemplate o suggerite dal tutor;
• accettare offerta di lavoro congrua;
• dimostrare la ricerca attiva del lavoro.

 

Il Piano d’azione è rivisto ogni 6 mesi e le tempistiche di contatto con il tutor del Centro per l’impiego vanno dalle 2 settimane standard in Regno Unito al fattore discrezionale (da “tutti giorni” a una volta al mese) della Germania. La condizionalità presenta anche un apparato sanzionatorio, che va ad impattare direttamente sul benefit e sulla sua entità, ma è diversamente articolata (sospensione e/o decurtazione) e modulata a seconda del paese preso in considerazione.

Rispetto all’Italia, entrambi i modelli risultano nettamente più “coercitivi” nell’applicare la condizionalità, ma è lecito chiedersi quanto la condizionalità incida sulla partecipazione o meno nel mercato del lavoro dei disoccupati?

 

L’efficacia della condizionalità nel mercato del lavoro

In letteratura non esistono studi statisticamente rilevanti che possono formulare una risposta chiara (al massimo possiamo affidarci a metà-analisi che raggruppa ricerche sparse in diversi paesi), il caso più noto è uno studio realizzato in Olanda nel 2006, che mostra come l’effetto di una sanzione sul tasso di transizione dal welfare al lavoro è cospicuo e significativo, la sanzione incrementa il tasso di uscita verso il lavoro di circa il 140 %. Lo studio in realtà rappresenta più un’anomalia rispetto ad altre ricerche, quelle realizzate in Svizzera mostrato effetti si positivi, ma nettamente inferiori rispetto a quelli dei paesi bassi.

 

In entrambe i casi, l’impatto appare significativo solo nel breve periodo e questo rappresenta l’elemento costante anche nelle ultime ricerche. Tuttavia, nella versione tedesca di workfare, la pressione prodotta da “avvertimenti” e “sanzioni” comporta che l’accettazione di qualsiasi offerta di lavoro funziona solo nei confronti dei soggetti più “appetibili” al mercato del lavoro (in particolare coloro che ritengono di ricevere un’offerta “congrua” con le proprie capacità), mentre per i disoccupati di lungo periodo o con poche chance di essere ricollocati lo strumento, anche se combinato con servizi generici di orientamento ed accompagnamento al lavoro, non produce nessun effetto in termini di maggiore occupabilità dei destinatari.   Acconto all’inefficienza in termini occupazionali, la condizionalità nei confronti dei target più svantaggiati ha un impatto negativo anche sulla salute mentale, viene infatti percepita come degradante/stigmatizzante e la consapevolezza di ricevere sanzioni genera anche ansia e risentimento e, quando sono state applicate sanzioni, ha anche danneggiato e turbato la loro attività di ricerca di lavoro.

 

All’interno di una valutazione qualitativa, la maggior parte dei partecipanti al Work Programme nel Regno Unito indipendentemente dal loro livello di “occupabilità”, ha ritenuto che il regime delle sanzioni non era necessario in quanto non influenzava il loro comportamento nella ricerca del lavoro piuttosto generava comportamenti opportunistici, percezione che è stata confermata anche dall’assenza di correlazione tra applicazione della sanzione e ottenimento dei posti di lavoro.

 

Meno condizionalità, più mobilità

Basandomi su quanto scritto, poiché l’occupazione non è garantita come il “diritto” e statisticamente non ci sono abbastanza posti di lavoro per ogni persona che cerca un lavoro: in Italia, costringere i disoccupati, in particolare i più svantaggiati, a cercare un posto di lavoro che non “esiste” o per cui si è sotto/sovra qualificati comporta semplicemente spostare i disoccupati percettori di Naspi in inattivi “scoraggiati”.

Lungi dall’essere contrario alla condizionalità, questa va però intesa come un“ diritto all’attivazione” che accompagni il percettore di sussidi verso un nuovo impiego esattamente come avviene con l’Assegno di ricollocazione e non un “dovere a lavorare” che nei fatti produce nei confronti dei soggetti sanzionati “stigma” sociale e comportamenti opportunistici (o truffaldini) che permettano di mantenere comunque il sussidio (falsi colloqui di lavoro, costringere il datore a farsi licenziare, ecc…).

Le politiche del lavoro che saranno disegnate in futuro dovrebbero invece favorire la mobilità occupazionale. Tale politica in Germania, non certo un paese in recessione, mostra effetti in termini di salari e stabilità del lavoro notevolmente più elevati tra i partecipanti rispetto al gruppo di controllo; per aumentare l’efficienza di una tale politica, si potrebbe prevedere un importo forfettario per il costo di trasferimento e alloggio in aggiunta al sussidio, basati sulla particolarità/caratteristiche delle famiglie, come lo stato civile o la presenza di bambini, ciò contribuirebbe a riempire i cosiddetti “posti vacanti” in alcuni aree (soprattutto i grandi centri urbani) dai disoccupati provenienti dalle aree depresse.

 

Francesco Giubileo

Esperto in politiche attive del lavoro

@F_Giubileo

 

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