Bollettino ADAPT 24 maggio 2021, n. 20
Pubblichiamo parte dell’Introduzione del saggio “La guerra dei cinquant’anni. Storia delle riforme e controriforme del sistema pensionistico” del quale è autore Giuliano Cazzola. Il libro è da pochi giorni nelle librerie.
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Con le pensioni io ci campo. Non solo perché sono un pensionato, con un assegno considerato “d’oro” e perciò continuamente sottoposto a contributi di solidarietà, ma soprattutto perché i temi del welfare e della previdenza (le pensioni sono soltanto il settore più importante) hanno costituito per me un innamoramento dell’età matura che mi ha indotto a “trattare” l’argomento da molti punti di vista e interessi diversi: come sindacalista, come dirigente generale del Ministero del lavoro impegnato per ben 13 anni nel ruolo di componente e presidente dei collegi dei sindaci prima dell’Inpdap, poi dell’Inps, come parlamentare e in qualità di studioso e titolare a contratto di cattedre universitarie e autore di articoli, saggi e pubblicazioni. In particolare devo alle pensioni una visibilità pubblica che non è mai venuta meno. E per uno che si è occupato di politica per tutta la vita, la visibilità è come una dipendenza (infatti passo le giornate a scrivere articoli come se dovessi sniffare cocaina), perché il falò delle vanità non si spegne mai.
In una fase in cui la conoscenza e la competenza si sono rarefatte, poter disporre di un sapere “vissuto” da testimone e da protagonista garantisce un patrimonio di credibilità che può essere apprezzato dalle persone serie, ma anche detestato da chi non riesce a liberarsi della demagogia e dei luoghi comuni, soprattutto in una materia che suscita tante passioni, invidia sociale e aspettative come, appunto, le pensioni. Tuttavia, per tanti anni, pur ricoprendo incarichi sindacali importanti, quello delle pensioni era per me un mondo estraneo, arzigogolato, di cui non capivo i meccanismi. In seguito mi resi conto che è indispensabile capire i sistemi di finanziamento, soprattutto il concetto della ripartizione che è fondamentale per comprendere i motivi della tenuta o della crisi dei grandi modelli obbligatori e che ha elevato la demografia – un tempo scienza di secondo rango, ancella di altre più paludate – a pietra d’angolo per la stabilità dell’edificio del welfare. Non a caso, nella XVIII legislatura, i provvedimenti in materia di pensioni hanno completamente ignorato i trend demografici (e pertanto il rapporto tra lavoratori attivi e prestazioni erogate). Da un esame più attento sarebbe pervenuta una clamorosa smentita di “quota 100” e dintorni.
Tornando alla mia storia, il primo incontro del terzo tipo con le pensioni lo ebbi da segretario generale dei chimici, incarico che ricoprii dal 1985 al 1987, dopo aver diretto fino ad allora la Cgil dell’Emilia-Romagna. In quel ruolo, mi capitò diverse volte di scontrarmi con Antonio Pizzinato (sia quando era candidato alla direzione della Cgil, sia quando ne era divenuto il segretario generale). Lo scontro più duro con Pizzinato avvenne quando ormai la mia esperienza ai chimici volgeva al termine e cioè nella primavera del 1987. Stavamo negoziando con Montedison un accordo istitutivo di un fondo pensione (uno dei primi nell’industria), del quale mi ero occupato in prima persona (Cofferati, allora mio “aggiunto”, si era tenuto prudentemente in disparte) insieme con un altro segretario della Filcea: Fulvio Vento, uno dei dirigenti migliori che io abbia mai trovato in tanti anni di impegno sindacale. Il negoziato si trascinò a lungo. Non c’è nulla di peggio del credere di aver ragione e di fare l’interesse dei lavoratori e dover temporeggiare, senza argomenti, con i partner e la controparte. Ricordo che mi avvalsi persino dei rapporti che avevo stabilito con Unipol (dove avevo rappresentato per anni l’azionista Cgil nel cda) per avere dei suggerimenti e, soprattutto, un po’ di copertura politica. Pizzinato ci convocò per un confronto con la segreteria della Cgil e ci mise sotto processo come attentatori alla solidità dei regimi pensionistici obbligatori. Fummo difesi da Ottaviano Del Turco e da Enzo Ceremigna (Fausto Vigevani se nel lavò le mani, benché fosse stato segretario della categoria in passato). Ma dalle peste ci tirò fuori Bruno Trentin, il quale individuò due o tre condizioni irrinunciabili che la Cgil doveva pretendere per poter firmare. Era il suo modo di fare le cose. Le condizioni poste non erano poi un granché, ma Bruno ne ingigantì il significato. Noi capimmo di aver avuto via libera. Bastava ottenere quelle poche modifiche.
Prima della riunione con la segreteria confederale, io e Cofferati avevamo incontrato in un albergo romano, nei pressi della Cgil, il responsabile di Montedison, al quale avevamo chiesto di rinviare la firma dell’intesa (prevista di lì a poche ore), per avere modo di chiarire la nostra posizione con la Cgil. A quell’operazione tenevano molto i vertici del gruppo. Ma il nostro interlocutore ci venne incontro, al punto tale da rinunciare a un’intesa separata con Cisl e Uil di categoria, che pure non si sarebbero tirate indietro. La sottoscrizione dell’accordo non ci liberò dalle critiche che continuarono a lungo. Ma da quel momento le pensioni erano entrate nel mio destino. Fui eletto in segreteria confederale nel luglio 1987. Era una “promozione” che attendevo da anni, che credevo di meritare e che finalmente era arrivata. Mi incaricarono di seguire sia le politiche sociali sia il Mezzogiorno. Non mi attribuirono tanto potere perché gli altri avevano fiducia in me: il cumulo di incarichi derivava da una sostanziale sottovalutazione del novero delle questioni che mi erano state affidate. I settori nobili erano quelli delle politiche industriali e contrattuali oppure l’organizzazione. Allora il problema delle pensioni non aveva il peso che assunse in seguito. Pure la questione meridionale non scaldava troppo i cuori del gruppo dirigente, nonostante fosse ancora operante l’intervento straordinario a cui erano attribuite parecchie migliaia di miliardi di lire.
Ero assai digiuno nei campi di cui dovevo interessarmi, esercitando la responsabilità di segretario. Bisogna ricordare che in Confederazione vi erano dei funzionari superesperti che si occupavano, con continuità ultradecennale, di pensioni e di sanità. Praticamente facevano tutto loro. I segretari erano un po’ come i ministri: restavano alcuni anni, poi cambiavano, senza essere riusciti a impadronirsi compiutamente di materie tanto complesse. Il factotum della previdenza, in Cgil, si chiamava Carlo Bellina ed era una della quattro o cinque persone che decidevano sulle pensioni in Italia (tra gli altri vi erano l’on. Adriana Lodi del Pci, l’on. Nino Cristofori della Dc, Bruno Bertona della Cisl). Per Bellina la superiorità del regime pubblico era un dogma. Aveva svolto il ruolo di pubblico ministero quando la segreteria della Cgil mi aveva processato, insieme a Vento, per il Fiprem Montedison. Il responsabile della sanità era Ivan Cavicchi, allevato e cresciuto nel culto della riforma sanitaria del 1978. Poiché ero rimasto scottato dal “processo politico” a cui ero stato sottoposto per il caso Montedison, decisi che sarei stato un segretario con opinioni sue. Passai l’estate a studiare. Conservo ancora il quaderno di appunti che compilai in quell’agosto, riassumendo (allora non c’era Internet) i testi del disegno di legge che nella precedente legislatura aveva licenziato la Commissione Cristofori (una Commissione speciale che, come vedremo in seguito, aveva provato a unificare i testi dei diversi progetti di legge in materia) e gli emendamenti presentati a nome del governo dall’allora ministro socialista Gianni De Michelis.
Membro del Comitato scientifico ADAPT