Dopo gli annunci ecco la norma. Con lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri del 20 gennaio scorso, il Governo ha inteso porre rimedio al discusso fenomeno dei “furbetti del cartellino” della Pubblica Amministrazione.
La novella non riscrive integralmente la materia dei licenziamenti disciplinari nel pubblico impiego, preferendo invece intervenire direttamente sul testo dell’art. 55-quater del Testo Unico del Pubblico Impiego (d.lgs. n. 165/2001), con una operazione di interpretazione autentica del concetto di “falsa attestazione della presenza in servizio”.
Costituirà così falsa attestazione della presenza in servizio «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi (i quali pure risponderanno per aver agevolato in via attiva o omissiva la condotta fraudolenta) per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso».
Nell’ipotesi in cui i dipendenti pubblici infedeli dovessero essere sorpresi «in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze», sarà obbligo del responsabile della struttura o dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari provvedere con atto motivato − entro 48 ore dalla conoscenza del fatto − alla sospensione cautelare del lavoratore dal servizio con privazione dello stipendio. In questa fase preliminare il soggetto competente per la sospensione viene espressamente esonerato dall’obbligo di preventiva audizione dell’interessato, ferma la facoltà dell’organo procedente di instaurare un contraddittorio a difesa, purché ciò non pregiudichi la tempestività del provvedimento cautelare. Ogni ritardo, infatti, pur non dando luogo ad alcuna decadenza per l’Amministrazione sul piano sanzionatorio dell’addebito, potrà comportare la responsabilità disciplinare del soggetto obbligato a procedere alla sospensione.
Nell’individuazione di quest’ultimo soggetto, il criterio adottato dal legislatore pare prestare il fianco a notevoli incertezze applicative. È previsto infatti che «la sospensione è disposta dal responsabile della struttura in cui il dipendente lavora o, ove ne venga a conoscenza per primo, dall’ufficio competente di cui all’art. 55-bis, comma 4», ovvero l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari che ciascuna Amministrazione deve individuare secondo il proprio ordinamento. Ebbene, il criterio della prima conoscenza non sembra idoneo ad individuare con certezza il soggetto competente, soprattutto alla luce della responsabilizzazione disciplinare introdotta a suo carico in caso di inerzia, la quale potrebbe generare pratiche di reciproca attribuzione della responsabilità e quindi favorire proprio quella inerzia che la riforma mira a contrastare.
Di particolare interesse, ai fini della futura applicazione della norma, è dunque il modo in cui il dirigente viene a conoscenza della falsa attestazione della presenza in servizio.
La novella, in linea con gli esempi che già si sono fatti nelle sedi più disparate, richiama − oltre alla flagranza − strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze. Se per questi ultimi non appaiono emergere questioni rilevanti, una più attenta riflessione deve essere svolta con riferimento agli strumenti di sorveglianza.
È infatti con le telecamere della Polizia giudiziaria che vengono abitualmente documentati gli illeciti; ma se si trattasse di telecamere poste dall’Amministrazione allo specifico scopo di controllare il personale in servizio? Non si può tacere la stretta connessione con la disciplina dei controlli a distanza, di recente riscritta dal c.d. Jobs Act (per un commento si veda E. Dagnino, Tecnologie e controlli a distanza, in M. Tiraboschi (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Giuffré, 2016, pag. 107 ss.).
L’art. 4 della legge n. 300/1970 impone che gli impianti audiovisivi siano «impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale»; anche qualora l’ipotesi in commento fosse riconducibile alle “esigenze organizzative e produttive”, lo stesso articolo subordina l’installazione alla sottoscrizione di un accordo con le rappresentanze sindacali.
Senza ulteriori specificazioni, dunque, molto dipenderà dall’interpretazione che verrà data del nuovo art. 4 St. Lav. in sede giudiziale, con tutte le incertezze del caso.
Contestualmente alla sospensione, è previsto il trasferimento degli atti all’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, che dovrà esaurire il procedimento entro 30 giorni.
Si tratta, di fatto, di un procedimento accelerato, parallelo a quello previsto dalla riforma Brunetta (d.lgs. n. 150/2009), che rimarrà dunque in vigore per le restanti ipotesi previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Un nodo irrisolto è quello relativo alla natura del termine di 30 giorni previsto per la conclusione del procedimento disciplinare. Mentre infatti il nuovo comma 3-bis dell’art. 55-quater esplicita che la violazione del termine delle 48 ore per la sospensione cautelare non determina l’inefficacia dalla sospensione cautelare né la decadenza dall’azione disciplinare, nulla si dice, al successivo comma 3-ter, con riferimento al termine per la conclusione del procedimento stesso.
La ratio della riforma, che aspira a una punizione certa, severa e immediata, potrebbe indurre a ritenere che il termine di 30 giorni abbia efficacia perentoria. Nello stesso senso depone altresì la considerazione secondo cui, se davvero il legislatore avesse voluto prevedere che anche questo termine non fosse a pena di decadenza, lo avrebbe detto espressamente, come avvenuto per il termine relativo alla sospensione immediata dal servizio. Ciò perché la precisazione circa la valenza meramente ordinatoria del termine, effettuata con riguardo alle 48 ore entro cui va disposta la sospensione, sembrerebbe riempire di significato il silenzio del legislatore sull’altro termine, quello per la conclusione del procedimento.
Va però sottolineato che, così argomentando, si finirebbe per apprestare una procedura speciale per i “furbetti del cartellino” colti sul fatto potenzialmente più favorevole agli stessi poiché, in caso di mancata conclusione dell’intero procedimento disciplinare entro lo strettissimo termine di 30 giorni, la Pubblica Amministrazione decadrebbe dall’azione disciplinare, mentre per tutti gli altri casi di analoga gravità tale decadenza si avrebbe soltanto dopo l’infruttuoso decorso di 120 giorni dalla contestazione dell’addebito.
Entro 15 giorni dall’avvio del procedimento disciplinare, l’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari (pur non essendo specificato dalla norma, si presume che sia questo il titolare) dovrà provvedere alla denuncia al pubblico ministero e alla segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti, che dovrà giudicare la sussistenza dei requisiti per l’ottenimento del danno di immagine. In caso affermativo la Pubblica Amministrazione dovrà provvedere con l’apposita azione di responsabilità entro 120 giorni dalla denuncia.
Diversamente dal passato, quando comunque erano già previsti sia il danno patrimoniale che il danno d’immagine, il legislatore delegato introduce un importo minimo per la condanna del lavoratore, che non potrà essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre agli interessi e alle spese del procedimento.
Infine, in caso di omessa attivazione da parte dei dirigenti (o dei responsabili di servizio competenti), questi potranno essere chiamati a rispondere di uno specifico illecito disciplinare punibile anch’esso con il licenziamento. Viene poi precisato, al nuovo comma 3-quinquies, che l’omessa comunicazione all’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, l’omessa attivazione del procedimento disciplinare e l’omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare costituiscono omissione di atti di ufficio di cui all’art. 328 Codice penale: riferimento, questo, che pare rispondere più a obiettivi di deterrenza, che ad una reale necessità tecnica, posto che ovviamente sarà sempre il giudice a verificare nel caso concreto la sussistenza degli elementi costitutivi di una qualunque fattispecie di reato.
Il licenziamento disciplinare, si badi, sarà applicabile soltanto nell’ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio accertata in flagranza o registrata, non già nelle ulteriori ipotesi previste all’art. 55-quater TU. Con riferimento ad esse, infatti, l’inerzia del dirigente sarà punibile ai sensi delle norme già in vigore (art. 55-sexies T.U.).
Al di là delle possibili criticità − più che altro legate alle norme in materia di controlli a distanza − che potranno emergere in sede di accertamento della flagranza, va posto in evidenza che intervenire con una serie di novelle aggiuntive abbandonando così lo strumento del Testo Unico, produce di fatto numerose complicazioni che minano l’effettività e la stessa “conoscibilità” delle disposizioni stesse.
Sull’onda dei casi eclatanti, dunque, le norme cambiano; cambiano però unicamente in un’ottica repressiva, senza guardare ad altre possibili soluzioni più legate alla premialità (come quelle suggerite da P. Tomassetti, Assenteismo nelle PA: il problema e la soluzione sono nella contrattazione collettiva). Una prospettiva, quella incentivante, che si potrebbe comunque valorizzare in sede di rinnovo contrattuale, su cui si sta iniziando a lavorare, dopo l’attesa sentenza della Corte costituzionale.
Il rischio è quello di ritrovarci, a distanza di un anno, a dover commentare dati quantitativi su procedimenti e licenziamenti poco differenti da quelli degli ultimi anni, tali da suscitare ancora una volta l’invocazione di nuove norme.
ADAPT Junior Fellow
@MarcoMenegotto
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo