Dai cartellini identificativi, alla mail aziendale, fino ai sistemi di videosorveglianza e geolocalizzazione: qualunque ordinaria attività aziendale comporta l’eventualità che il dipendente possa lasciare traccia dei propri dati sensibili. Occorre quindi un sistema di regole certe e ben definite che consenta al dipendente o al collaboratore di proteggere la propria sfera personale. Tutto quello, che ad oggi, non sussiste.
Sebbene il tema privacy e lavoro sia dibattuto da tempo, la riforma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori per mezzo del decreto sulla semplificazione in materia di lavoro, approvato in questi giorni in via preliminare dal Consiglio dei Ministri, pare aver riacceso una scintilla che rischia di tramutarsi in un vero e proprio falò, viste le incertezze normative e interpretative che si prospettano. Come noto, l’articolo citato vieta l’uso di impianti audiovisivi o di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, specificando che gli stessi possono essere installati solo se «richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro», previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in assenza, con l’assenso dell’ispettorato del lavoro su iniziativa del datore di lavoro.
Ebbene, con la riforma in corso si opterà per una forte apertura verso i controlli sugli impianti e sugli strumenti di lavoro e verso l’utilizzo delle informazioni ottenute, il cui uso di fatto diventa legittimo semplicemente previa consegna di un documento informativo per dipendenti interessati.
A conferma di questo, nello schema di decreto legislativo viene prevista «la possibilità che i dati che derivino dagli impianti audiovisivi e dagli altri strumenti di controllo siano utilizzati ad ogni fine connesso al rapporto di lavoro, purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità di uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli, nel rispetto del Codice Privacy».
In buona sostanza, le novità più significative riguardano i dispositivi tecnologici come pc e smartphone forniti ai dipendenti e gli strumenti per verificare accessi e presenze come i badge, in quanto per installare impianti audiovisivi e altri apparecchi di controllo saranno ancora necessari l’accordo sindacale o l’autorizzazione da parte del Ministero del lavoro per le imprese con unità produttive dislocate in diverse province o regioni.
Al fine di placare gli animi, visto che la Cgil ha annunciato battaglie in Parlamento e di fronte al Garante, il Ministero del lavoro, con una nota del 18 giugno, si è affrettato ad escludere che vi sia stata una liberalizzazione dei controlli specificando che «la norma sugli impianti audiovisivi e gli altri strumenti di controllo contenuta nello schema di decreto legislativo in tema di semplificazioni, adegua la normativa contenuta nell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori – risalente al 1970 – alle innovazioni tecnologiche nel frattempo intervenute e che è in linea con le indicazioni fornite negli anni dal Garante della Privacy».
In dettaglio, nella nota viene chiarito che l’accordo con le parti sociali o l’autorizzazione ministeriale non sono necessari laddove lo strumento di lavoro venga fornito al lavoratore per adempiere la propria prestazione. Serviranno, difatti, solo nel caso in cui i dispostivi permettano al datore di lavoro di controllare la prestazione dei dipendenti, ad esempio, perché caratterizzati da software di localizzazione o filtraggio anche se per esigenze produttive, di sicurezza dei lavoratori e di tutela del patrimonio aziendale.
In realtà, nonostante il contenuto del messaggio ministeriale, appare innegabile che da una prima lettura dell’art. 23 del citato decreto emerga una vera e propria deregolamentazione dei controlli visto l’ampio e generico richiamo all’eventualità che i dati che ne derivano possano essere utilizzati ad ogni fine connesso al rapporto di lavoro – compresi dunque i fini disciplinari. Ulteriormente, puntare sulla responsabilizzazione e sull’uso corretto e consapevole degli strumenti di lavoro da parte del lavoratore, fornendogli semplicemente un documento illustrativo, appare un argine non sufficiente a limitare le potenzialità di una apertura verso i controlli aziendali così dirompente come quella che si sta delineando. Lo stesso richiamo, nell’art. 23, nella nota del Ministero e nelle dichiarazioni del Ministro Poletti alla normativa sulla privacy, non appare incisivo.
Ricostruendo quanto prescritto dalla normativa in vigore, l’utilizzo degli strumenti di controllo, non puo’ realizzarsi in contrasto con la normativa presente nel nostro ordinamento giuridico in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003), dunque sempre nel rispetto dei principi di liceità, correttezza, necessità, pertinenza, completezza e non eccedenza. Ulteriormente, in riferimento al web che rappresenta uno degli aspetti più delicati, occorre aver chiaro anche le prescrizioni contenute nelle Linee guida del Garante per posta elettronica e internet del 2007, le quali stabiliscono che i datori di lavoro pubblici e privati non possono controllare la posta elettronica e la navigazione dei dipendenti, se non in casi eccezionali e che spetta al datore di lavoro definire le modalità d’uso di tali strumenti tenendo conto dei diritti dei lavoratori e della disciplina in tema di relazioni sindacali. Nello specifico, l’Autorità vieta la lettura e la registrazione delle e-mail, così come il monitoraggio cronologico delle pagine web visualizzate dal lavoratore, perché ciò rappresenterebbe un controllo a distanza dell’attività lavorativa, vietato dallo Statuto dei lavoratori. Ancora, il provvedimento prescrive l’adozione da parte delle aziende di un disciplinare interno, definito coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali, nel quale siano chiaramente indicate le regole per l’uso di Internet e della posta elettronica. Il datore di lavoro è inoltre tenuto ad adottare ogni misura in grado di prevenire il rischio di utilizzi impropri, così da ridurre controlli successivi sui lavoratori.
Da una lettura delle Linee guida – così come dall’attuale modifica dell’art. 4 dello Statuto – affiora la logica dell’“uomo avvisato mezzo salvato”, nel senso che si punta sull’informazione del lavoratore circa i possibili esiti dei controlli per invitarlo ad adeguarsi le policy aziendali.
Tuttavia, se così è, una volta diffusa una sorta di libretto delle istruzioni su come usare internet, tablet e posta, è difficile non immaginare la conseguente applicazione di sanzioni disciplinari in caso di condotte scorrette, visto che con il decreto sulla semplificazione, viene stabilito che i dati raccolti dai controlli possono essere impiegati per ogni fine connesso al rapporto di lavoro. Difficile non immaginare anche che proprio questo sconfesserà gran parte di quanto contenuto nelle citate Linee Guida .
Prevarranno le ragioni dell’imprenditore e i principi sanciti agli articoli 41 e 42 della Costituzione a tutela dell’iniziativa economica e della proprietà, o i valori costituzionali della riservatezza e onore della propria identità e personalità? È evidente come una risposta a questa domanda potrebbe venire, ancora, dalla contrattazione collettiva che, seppur apparentemente marginalizzata nel processo di modifica dell’art. 4 dello Statuto, potrebbe intervenire in materia in quanto strumento privilegiato per la definizione di un punto di equilibrio dinamico tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle aziende.
Serena Santagata
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@Serena_Santa
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Privacy e lavoro in bilico tra esigenze di tutela e innovazione