Giacché la parafrasi di una risata ha, nella maggior parte dei casi, l’effetto di mortificarla, può anche darsi che di un film che fa molto ridere non si debba parlare troppo. Ha allora ragione chi, con buona dose di autocontraddizione, si scaglia contro la voglie irrefrenabili di dire la propria circa l’ultimo successo cinematografico di Checco Zalone, come ha fatto Marco travaglio sul Fatto Quotidiano? La comicità di Quo Vado è effettivamente troppo intelligente per lasciarsi incasellare dai diversi commenti che, provenienti da ogni parte politica, avrebbero voluto intestarsi una supposta sintonia di pensiero. Tuttavia è stato lo stesso regista del film, che con Zalone costituisce una coppia fissa, a dichiarare in un’intervista di Luca Telese che la comicità della coppia pugliese è “studio e disvelamento”, perché se un comico non svela qualcosa “non serve a nulla”. Già questa rivendicazione di autorialità dimostra quanto sia snob trascurare il portato culturale del film. Cosa che non si dovrebbe comunque mai fare, visto che ogni successo della cultura di consumo è un segnale antropologico, la cartina di tornasole di un sentire comune che riesce a intuire nel pubblico.
Tutta la vicenda dell’impiegato pubblico Zalone ruota attorno alla cocciuta conservazione di privilegi, segni identitari di una predestinazione fasulla, di un dualismo innaturale che assicura a taluni un guadagno certo, indipendente dal lavoro svolto (“una freccia, un cinghiale”) mentre condanna altri a un destino da partite iva o da precari.
Comunque la si pensi, poter ridicolizzare il posto fisso a vita, comunicarlo come inattuale e implausibile, è un segno dei tempi che corrono. E, che dir si voglia, ciò è particolarmente interessante nel momento in cui, a più riprese e a più alta voce, si proclama l’ineffabile ripresa del mercato del lavoro, proprio sotto l’insegna della stabilità ritrovata grazie al Jobs Act.
Nunziante però fa di più: offre un’interpretazione autentica della componente politica che nella satira di Quo Vado, più di costume che ideologica, resta sottotraccia. Se il film si è reso disponibile a una baruffa d’opinioni è proprio perché il personaggio zaloniano si colloca all’incrocio tra diversi cliché: il mammone, che di solito è un precario, qui è un tutelato che mantiene il posto fisso a vita, ma che per farlo paradossalmente soffre il contrappasso di una mobilità geografica esasperata, terminata solo con la rinuncia all’agognata condizione di tutelato.
Scopriamo che in quella che Eco chiamerebbe intentio auctoris questa ibridazione è il simbolo di ciò che servirebbe al Paese: una “riconciliazione necessaria”, nella consapevolezza che la barca su cui i lavoratori italiani galleggiano è più comune di quanto si riesca a percepire. Questo il messaggio esplicitato da Nunziante: il “posto fisso” non è l’ultimo baluardo della sinistra, bensì un’ingiustizia storica alla quale il Jobs Act sta fornendo una risposta che è peggio del problema, creando un mercato del lavoro “da ipergarantito a iperselvaggio”, per dirla con le parole del regista.
Si poteva intuire questa denuncia implicita prima che la sofferta parafrasi di Nunziante pervenisse ai lettori di Libero. Lo scacco di una schizofrenia professionale, più volte già rappresentata nello stesso cinema italiano, è infatti qui il contraltare di una promessa imprecisa e debolmente rassicurante che risuona più volte in quel “Ovviamente la seguiremo in un percorso di reinserimento”. Quello è il cliché più amaramente ironico, quasi fuori posto rispetto al tenore complessivo del film. Proprio in quel frangente un impegno rimandato svela il vuoto tra l’insostenibile posto fisso a vita e l’insussistenza di un ricollocamento assistito. Un abbandono che ammicca al pubblico alludendo probabilmente alla scarsa reputazione della quale godono i centri pubblici per l’impiego. Un abbandono però che a chi ha seguito la comunicazione politica del Jobs Act non può che ricordare le parole pronunciate da Renzi durante la conferenza stampa del 20 febbraio 2015, quando proclamando l’avvento della rivoluzione copernicana dei contratti, la fine della precarietà e la riconquista storica della stabilità per i molti, chiosava: “nessuno sarà più lasciato solo”.
Lo scenario implicato dall’ibrido zaloniano è infatti sufficientemente realista. Almeno per le condizioni che il Jobs Act crea al momento; perché pur volendo realizzare una vera flexicurity, nella sua foga riformista mette il carro della flessibilità davanti ai buoi della sicurezza, creando il rischio che la prima si manifesti molto prima che la seconda possa contenerne gli effetti negativi. Per il consenso del Governo la battuta ripetuta nel film di Zalone suona quindi come un campanello d’allarme: il rischio che accanto alla già percepita e ben nota crisi epocale del posto fisso si saldi quella promessa disattesa, che nel Paese reale ha già coinvolto parecchi giovani, soprattutto quelli iscritti al programma di politiche attive a loro dedicato col nome impegnativo di “Garanzia Giovani”.
Ora che con il Jobs Act la promessa dell’implementazione di un sistema veramente efficace di politiche attive viene estesa a tutti i lavoratori, risulta quasi banale sottolineare l’importanza del compito per la credibilità del Governo. Se già la comunicazione renziana è stata basata su un lavoro stabile che più tanto stabile non è, riuscire a rendere l’idea dell’efficacia di politiche attive che per ora attive non sono potrebbe essere ancora più difficile. A Renzi l’argomento non risulta di facile gestione. Di Garanzia Giovani disse esplicitamente di parlare poco proprio perché malfunzionante. Tuttavia il nuovo sistema di politiche attive e la nuova agenzia preposta non dovranno solo funzionare bene, ma dovranno anche comunicare bene. E il governo non potrà in ogni caso fare scena muta: la platea sarà troppo ampia e il valore simbolico del sistema di politiche attive sarà enorme. Giacché non sono le tutele crescenti, ma una vera continuità del lavoro a costituire una buona contropartita per il defunto posto fisso a vita, l’eredità che il nuovo sistema deve colmare è infatti quella niente meno del famigerato articolo 18.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@franznespoli