Più che un impianto industriale sembra il deposito di un rigattiere. Centocinquanta metri quadri dove si trova di tutto. Citando a caso: due vecchi sedili di auto, quattro trolley, una tv accesa su un programma cinese di quiz, provviste di acqua minerale e di carta igienica, un vecchio dispenser Zanussi di bevande, pacchi di assorbenti, un letto matrimoniale, una brandina da campo, decine di paia di scarpe e centinaia di rocche di filato.
Nella parte più ampia del capannone ci sono gli impianti, si fa per dire. Ovvero ventitré postazioni con macchina da cucire Yuku antidiluviana e altrettante sedie, qualcuna tenuta assieme letteralmente con lo scotch. Gli operai non ci sono, hanno lavorato fino a notte fonda e ora sono via.
Siamo nella più grande Chinatown italiana, a un anno dal tragico rogo che costò la vita a 7 operai che vivevano accanto alle loro Yuku e quello che abbiamo descritto è uno dei capannoni che gli ispettori del lavoro dell’Asl visitano ogni giorno. Cinquanta a settimana, di cui almeno dieci vengono messi sotto sequestro perché ospitano un dormitorio o non hanno l’impianto elettrico a regola.
I giovani ispettori del lavoro assunti dalla Regione Toscana riescono a visitare solo i laboratori che aprono, per quelli sprangati non c’è niente da fare. Li aiuta un’interprete italiana e le persone che si trovano davanti sembrano attori di una commedia con infinite repliche.
C’è un prestanome che non parla una parola di italiano e che prima di firmare i documenti legge il suo nome sulla carta d’identità, una giovane donna che sovraintende al lavoro degli operai, un autista robusto che fa anche da guardiano. Dopo una ventina di minuti arrivano anche i proprietari del capannone, pratesi purosangue che recitano anche loro una parte in commedia. Sono allarmati, insultano i cinesi, intavolano un dialogo con gli ispettori per dire che «li abbiamo avvertiti cento volte che qui non si deve dormire». Ufficialmente il canone d’affitto è di 1.300 euro al mese ma non si sa quanto passa in nero.
Prato è questa. Ieri in città si è celebrato l’anniversario. Conferenze stampa, riti religiosi, l’attore Shi Yang Shi che leggeva storie di immigrati, la cantante lirica Bei Bei che cantava Puccini. Ma la realtà resta quella dura di sempre. La lotta contro l’illegalità vista in presa diretta equivale a prosciugare il mare con un secchiello. Durante la settimana ai controlli preventivi degli ispettori sanitari si affiancano quelli «repressivi» di finanzieri, carabinieri e poliziotti. I sequestri non fanno più notizia, tanto si sa che i cinesi hanno trovato il modo di saltare la burocrazia italiana. Aprire e chiudere le aziende in pochi giorni.
I pratesi temono i dormitori perché portano con sé bombole e rischi di esplosione e per questo gli ispettori scattano quando trovano pareti di cartongesso che nascondono letti e cucine. Le confezioni si chiamano così i capannoni producono i semilavorati che vanno a rifornire i pronto moda cinesi capaci di invadere di prodotti etichettati «made in Italy» i mercatini di Polonia, Lituania e Ucraina.
Ed è questa, per l’appunto, la prima conclusione che si può trarre dodici mesi dopo il rogo. Il modello di business del distretto cinese non è cambiato. Dopo la tragedia gli imprenditori asiatici più integrati avevano promesso «trasparenza» ma ci può essere un’industria cinese dell’abbigliamento low cost senza operai sfruttati, capannoni-dormitorio, affitti in nero? Finora, purtroppo, sembra di no, eppure in tanti in questi mesi si sono adoperati per cambiar strada.
I politici di professione non si sono nascosti e la pressione delle istituzioni si è fatta sentire. Il guaio è che, per ora, non c’è un altro modello e finché non lo si troverà si girerà a vuoto. Si daranno alla stampa i numeri dei controlli, la mappa dei sequestri, si aumenteranno gli ispettori ma accadrà che gli stessi imprenditori cinesi responsabili del rogo di un anno fa vengano intercettati telefonicamente mentre cercano un prestanome per ripartire, come se niente fosse accaduto.
In attesa di risolvere le questioni di business una novità va registrata: in città si comincia a parlare sempre più diffusamente delle complicità di tanti pratesi che vivono da piccoli rentier grazie all’illegalità cinese. Il processo per i morti del dicembre 2013 sta diventando il palcoscenico di questa denuncia. Del resto se ci sono 4.500 ditte cinesi a Prato, ci sono altrettanti capannoni e sono dunque tanti gli italiani che vivono di quegli affitti.
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La Prato cinese un anno dopo