Ci piacerebbe lavorare in mutande, senza muovervi da casa, facendo una pausa o magari un sonnellino ogni volta che lo desiderate? Se la risposta è sì potreste appartenere alla categoria che secondo l’Economist sta conquistando il mondo: i freelance. Parolina inglese che un tempo significava lavoratore senza contratto, costretto ad arrangiarsi con collaborazioni saltuarie, adesso invece esaltata come la nuova frontiera della “economy-on-demand”, l’economia a richiesta: in cui lavori quando serve, quando vuoi, dove vuoi.
Qualcuno non lo chiama più nemmeno lavoro ma “workcation“, fusione di “work” e “vacation”: nel senso che i confini fra l’uno e l’altro li stabilisce il lavoratore da sé. Addio lavoratore dipendente e salariato, benvenuto “You Inc”, Tu Spa, come lo ribattezza il settimanale londinese: è questo il futuro? O meglio il presente: in America 53 milioni di persone già lavorano come freelance, in Australia lo fa un terzo della forza lavoro e l’Europa si appresta a seguire la stessa strada, come si sono letteralmente accorti britannici, tedeschi, olandesi e altri popoli del vecchio continente da quando, invece di un taxi, possono chiamare un autista freelance con Uber, risparmiando tempo e denaro.
Fondata cinque anni or sono a San Francisco, l’azienda statunitense che fornisce un servizio di trasporto automobilistico attraverso un’applicazione sul telefonino, mettendo in collegamento diretto passeggeri e autisti, è oggi presente in 53 nazioni del globo, nel 2014 ha avuto un fatturato di oltre 1 miliardo di dollari e ha un valore di mercato di 40 miliardi. Il trucco, per così dire, è la rivoluzione digitale. Ci sono sempre stati dei freelance, o per meglio dire dei disoccupati o sottoccupati, pronti a svolgere determinate mansioni, ma non sapevano come raggiungere una potenziale clientela. Ora lo sanno: basta uno smartphone. Utilizzando lo stesso principio, una miriade di Uber stanno spuntando in altri settori dell’economia.
Handy ti spedisce in ufficio un uomo o una donna delle pulizie. SpoonRocket ti porta un pasto caldo. Instacart fa la spesa per te al supermercato. Medicast manda un dottore a farti visita. Axiom ti fornisce un avvocato. Eden McCallum un fiscalista o commercialista. Washio ti lava i panni ovvero ti fa il servizio di lavasecco. BloomThat ti recapita fiori. Fancy Hands ti mette a disposizione un po’ di tutto, dalla segretaria all’idraulico. E tutti questi lavoratori sono freelance, anche se tenuti insieme da startup che li organizzano, li gestiscono e li mettono in contatto con gli utenti.
«È qualcosa di più di un cambiamento economico», afferma la Freelancers Union, non un vero sindacato come il nome potrebbe suggerire bensì l’associazione che riunisce e rappresenta molti freelance americani. «È una svolta culturale e sociale pari a quella della Rivoluzione Industriale. Come il passaggio da una società prevalentemente agricola a una società industriale ebbe effetti dirompenti su diritti civili, partecipazione al lavoro e democrazia, così anche questo passaggio a una forza lavoro più autonoma e indipendente avrà un enorme impatto sul modo in cui concepiamo e organizziamo le nostre vite, le nostre comunità, il nostro potere economico». L’88 per cento degli interpellati, in un sondaggio condotto negli Usa tra freelance, afferma che non farebbe cambio con un lavoro dipendente: «Una volta che assaporano la libertà, ben pochi tornerebbero a un lavoro dalle 9 alle 5». E la rivista economica Forbes predice che il fenomeno è destinato a espandersi rapidamente, raggiungendo negli Stati Uniti il 50 per cento della forza lavoro entro il 2020 e percentuali analoghe in altre regioni della terra.
Detto così suona come qualcosa di meraviglioso: grazie alle nuove tecnologie, non prenderemo più ordini da un padrone, rispondendo soltanto a noi stessi. Ma la “You Inc”, la rivoluzione dei freelance, non entusiasma tutti. In ogni Paese in cui si è affacciata, Uber ha incontrato fiera resistenza: in Olanda l’hanno messa al bando, in Corea del Sud l’hanno dichiarata illegale, a Londra i tassisti dei “black cab”, i tradizionali taxi neri, hanno minacciato di scioperare per fermarla. Il nuovo che avanza, si sa, fa sempre paura, ma in questo caso bisogna mettersi d’accordo su che cosa sia esattamente la novità. «Quando si dice che un terzo della forza lavoro in America e in Australia è composta da freelance si fa confusione», avverte l’economista Kate Jenkins. La percentuale, in realtà, comprende lavoratori stagionali e a cottimo, la maggior parte dei quali pagati con il minimo salariale, nella stragrande maggiorana desiderosi di un impiego a tempo pieno, completo di benefici assistenziali. I membri della Freelancers Union, viceversa, sono quasi tutti colletti bianchi, per lo più impiegati nell’IT, l’Information Technology, ovvero che lavorano a casa propria davanti a un computer; e anche fra loro, ammette l’associazione, ce ne sono parecchi che non guadagnano abbastanza per mantenersi. La previsione che l’esercito dei freelance debba continuare a gonfiarsi all’infinito, inoltre, potrebbe essere ingannevole: perfino nell’industria dell’alta tecnologia, nella quale è più facile che siano utilizzati, lo scorso anno il loro numero è diminuito, perlomeno nelle imprese medio-grandi, passando dal 15 al 1 0 per cento della forza lavoro. La ragione è che, quando gli affari vanno bene, le aziende tecnologiche assumono; e se incontrano un freelance di qualità preferiscono prenderlo a bordo piuttosto che rischiare di vederlo lavorare per la concorrenza.
Dunque occorre distinguere. Parafrasando il celebre slogan di Marx, appare improbabile che i lavoratori di tutto il mondo gioiscano all’idea di disunirsi e diventare ciascuno un freelance indipendente, senza ferie o malattia pagati, senza diritti, senza certezze. Per il lavoratore di mezza età con famiglia, il lavoro salariato e dipendente rimane l’approdo prefissato (anche se a rischio che presto glielo porti via un computer o un robot ). Ma è innegabile che le nuove tecnologie aprono territori inesplorati a giovani, anziani in pensione o semi-ritirati, madri che lavorano e altre categorie che privilegiano la flessibilità. A guadagnarci può essere il consumatore, ammonisce l’Economist, a patto che lo Stato non assista inerte alla rivoluzione dei freelance, ma vigili e regolamenti per proteggerla e favorirla. Altrimenti la “Tu Spa” rischia di somigliare al vecchio lavoratore a cottimo, al portuale, facchino, muratore, in ansiosa attesa che il capo squadra scelga lui e non un altro per una singola giornata di lavoro.