Sequestro o scomparsa di lavoratori distaccati in Paesi “Hot Spot”: profili di security aziendale e carenze del sistema

Premessa

 

La recente scomparsa dei due operai italiani in Libia, nei pressi di Derna nella Cirenaica – ad oggi imputata ad un presunto sequestro di persona avvenuto nel corso dello svolgimento della attività lavorativa a bordo di un furgone – non è solo l’ennesima vicenda criminale che colpisce nostri connazionali all’estero. Da quanto emerso, dalla stampa nazionale e internazionale, i due uomini meridionali di origine calabrese si trovavano nel paese, in distacco, da alcuni mesi ad operare come tecnici per una azienda italiana, per l’esecuzione di opere nel settore edile e in condizioni contrattuali non meglio specificate. Oltre ai rilevanti profili internazionali e nell’attesa che ne vengano definiti meglio i contorni, la vicenda offre lo spunto per una riflessione sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori operanti in scenari ad alto rischio, caratterizzati dalla forte presenza di gruppi terroristici e di criminalità diffusa. Ciò tenuto conto del fatto che sono sempre più numerosi i casi di sequestri di persona a danno di lavoratori italiani, espatriati e/o in missione o distacco per conto di datori di lavoro italiani, che cadono vittime di singoli e/o gruppi organizzati in Paesi c.d. “Hot Spot” (+ 9% nel 2011). Infatti, sebbene con particolare riferimento alla “materiale consistenza” del fenomeno non sia possibile trovare dati esatti, tenendo conto della classifica dei Paesi con un maggior numero di sequestri di persona, elaborata nel 2011 da Special Contingency Risk LTD e riportata nella Relazione Annual kidnap review 2011, mentre nei primi anni del 2000 le zone più pericolose risultavano essere quelle del Centro e Sud America (dove nel 2004 si è registrato il 65% di tutti i sequestri al mondo), oggi, con il crescere della crisi medio orientale, il primato è passato a Paesi quali Afghanistan, Nigeria, Sudan, Pakistan e Iraq e, con l’incremento degli episodi di pirateria da ultimo registrati, alla Somalia. Quello della esposizione dei lavoratori ad atti di criminalità endemica o terroristica è dunque un problema molto diffuso, specie in quei settori produttivi come l’energia, i trasporti, le comunicazioni, e in generale quello delle infrastrutture critiche, in cui i cosiddetti rischi di security aziendale sono parte integrante dei processi produttivi e non possono essere ignorati dai datori di lavoro italiani, anche quando operano oltre i confini del territorio dello stato. Inoltre, data la sensibilità dell’argomento, è in attesa di esame da parte delle Commissioni Affari Costituzionali e Esteri del Senato il ddl Istituzione di un Dipartimento per la sicurezza dei cittadini italiani all’estero presso l’Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna operante in coordinamento con l’Unità di crisi del ministero degli affari esteri (16a legislatura, Disegno di legge n. 3469). L’Italia dal canto suo è parte del Global Counter Terrorism Forum, organismo volto a coordinare le politiche dei singoli Paesi membri di reazioni ad atti terroristici e a sequestri di persona da parte di terroristi, come nel caso del Memorandum di Algeri.

È a questo punto opportuno analizzare i possibili profili civili, previdenziali e penali sottesi a vicende come questa, ferma restando la necessità di valutare con attenzione e in fieri le concrete circostanze ad essa relative.

 

Profili civili e previdenziali

 

La giurisprudenza si è soffermata più volte, nel corso degli anni, sull’analisi delle conseguenze civili e previdenziali di un infortunio o della morte di un lavoratore sul luogo di lavoro causate dall’attività criminosa di terzi. Invero per i settori di maggiore incidenza, e sui lavoratori e gli addetti coinvolti, oltre ai rischi più noti e censiti per la salute e sicurezza, incombono normalmente anche rischi di sicurezza originati dalla attività criminosa di terzi (es. terrorismo, criminalità endemica, atti con finalità di turbamento dell’ordine socio-politico, etc…) che, pur essendo esterni alla attività produttiva, sono prevedibili e considerabili quali rischi “ambientali” inscindibilmente connessi allo svolgimento dell’attività produttiva stessa, e pertanto assoggettati alla disciplina di cui all’art. 2087 c.c. e alle norme di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, come ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 4012 del 20 aprile 1998; Cass. n. 5048 del 6 settembre 1988.; Cass. n. 7768 del 17 luglio 1999; nonché da ultimo Cass., n. 8486 dell’8 aprile 2013). I rischi sopra citati devono pertanto rientrare a pieno titolo nell’obbligo di valutazione, gestione e prevenzione da parte del datore di lavoro. La inosservanza di questi obblighi, tra l’altro, ove determini conseguenze come la morte o le lesioni del lavoratore, può determinare effetti risarcitori in capo al datore di lavoro, oltre che legittimare la richiesta, da parte del lavoratore o dei suoi familiari, di prestazioni indennitarie INAIL. Molto significativa per entrambe le prospettive – prevenzionistica in senso stretto e risarcitoria da una lato e assicurativa e indennitaria dall’altro – è la sentenza della Corte di Cassazione del 20 aprile 1998, n. 4012, ha chiarito che «L’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l’adozione non solo di misure di tipo igienico sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività, pur se allo stesso non collegate direttamente come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al dpr. n. 1124 del 1965 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua del rilievo costituzionale del diritto alla salute che dei principi di correttezza e buona fede». Tali principi sono ancora oggi confermati dall’orientamento dominante in materia.

Come ribadito in numerose altre pronunce, poi, alla luce dell’articolo 2087 c.c., il datore di lavoro non solo è tenuto a predisporre le migliori misure tecnicamente possibili di tipo igienico, sanitario e antinfortunistico, ma anche quelle volte ad evitare eventi, come l’aggressione ad opera di terzi che, benché non direttamente legati al processo produttivo, si presentino in alcuni settori con frequenza periodica. Ciò in ragione sia del rilievo costituzionale attribuito al diritto alla salute (art. 32 cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1135 c.c.) ai quali il rapporto lavorativo si deve informare.

Tuttavia, nonostante tali doveri e le correlate responsabilità siano riconosciuti dalla giurisprudenza e dal nostro sistema normativo complessivamente inteso, il Testo Unico di salute e sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 81/2008) non disciplina espressamente e in modo inequivocabile l’obbligo di valutare e gestire i rischi da security aziendale, limitandosi alla più ampia diposizione dell’art. 28, co. 1, che stabilisce che il datore di lavoro, nella redazione del documento di valutazione dei rischi, deve considerare tutti i rischi “compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”. Né giova alla effettività delle tutele il fatto che tra i circa venti decreti attuativi rimasti sospesi stia ancora languendo quello sulla qualificazione nel settore dell’edilizia, volto a regolamentare un processo di selezione delle imprese tale da garantire l’applicazione di standard di sicurezza elevati e condizioni di lavoro regolari per tutti gli addetti, ovunque prestino la loro opera.

 

I profili di responsabilità penale

 

Nel caso in cui una determinata condotta inosservante degli obblighi dettati da specifiche disposizioni normative riguardanti la salute e sicurezza sul lavoro, oltre che della comune prudenza e diligenza, sia valutata dal giudice causalmente efficiente, unitamente al comportamento doloso di terzi, a cagionare il reato, il datore di lavoro potrebbe essere imputabile anche penalmente per cooperazione colposa al delitto doloso commesso da terzi. In altri termini, il datore sarebbe considerato responsabile poiché è la sua negligenza ad aver ingenerato la possibilità che l’evento criminoso si realizzasse.

Essendo il datore di lavoro, in forza dell’art. 2087 c.c., garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, l’evento lesivo derivante da un’inottemperanza dell’obbligo di tutela può essere allo stesso datore imputato secondo il meccanismo reattivo previsto dall’art. 40, comma 2 c.p., il quale statuisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Inoltre nel caso di specie, in cui non vi sono ancora elementi per identificare la esatta natura dell’ipotizzato sequestro (sequestro semplice ex art. 605 c.p. ovvero a scopo di estorsione 630 c.p. ovvero a scopo di terrorismo o eversione ex art. 289 bis c.p.), ove scaturissero conseguenze mortali o lesioni gravi o gravissime per il lavoratore, potrebbe ipotizzarsi a carico del datore di lavoro la imputazione per le fattispecie di cui agli artt. 589, comma 2 e 590 comma 3 c.p.

Inoltre, nella ipotesi di morte dei lavoratori sequestrati, non è a rigore da escludere la possibilità di un’imputazione per omicidio doloso a titolo di dolo eventuale a carico delle figure responsabili dell’azienda, qualora dalle indagini emergesse che questi, pur avendo appreso da fonti attendibili l’imminenza del pericolo, non abbiano adottato anche le più lievi forme di cautela per garantire l’incolumità dei propri dipendenti.

Né tali responsabilità sarebbero neutralizzate dal fatto che il reato sia avvenuto fuori dal territorio dello Stato, considerata la rilevanza extranazionale dei profili penalistici correlati alla violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro. A norma del codice penale, dunque, i reati potenzialmente connessi al sequestro dei due operai, potrebbero essere di competenza della giurisdizione italiana, seppur in concorrenza con quella del Paese ove i crimini si sono verificati.

Nelle ipotesi di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme prevenzionistiche, inoltre anche la società datrice di lavoro potrebbe poi essere responsabile in applicazione dell’art. 25 septies del d.lgs. n. 231/01, a meno che non dimostri di aver adottato e correttamente attuato un modello di organizzazione e gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Analogamente, l’impresa potrebbe essere chiamata a rispondere innanzi al giudice, ex artt. 24-ter (Delitti di criminalità organizzata) e 25-quater (Delitti con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico) d.lgs. n. 231/2001, nella circostanza in cui erogasse delle somme di denaro ai rapitori allo scopo di favorire la liberazione degli ostaggi, ottenere informazioni o migliorarne le condizioni.

 

 

Conclusioni

 

Alla luce del quadro normativo composito appena analizzato e nonostante l’assenza di una norma prevenzionale che si esprima letteralmente sul punto, si può dunque a ragione sostenere, in via interpretativa, che il datore di lavoro operante in zone nelle quali intensa è l’attività di gruppi terroristici o di guerriglia, come nel caso di specie, non possa non farsi carico anche del rischio di atti criminosi di terzi (come il reato di sequestro di persona), predisponendo le opportune cautele e rispondendo delle conseguenze connesse alla inosservanza delle stesse.

 

Maria Giovannone

ADAPT Senior Research Fellow

@MariaGiovannone

 

Francesco Catalfamo  

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

 

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Sequestro o scomparsa di lavoratori distaccati in Paesi “Hot Spot”: profili di security aziendale e carenze del sistema
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