La crisi dell’Electrolux, con la potenziale chiusura dello stabilimento di Porcia (PN), è l’ennesimo segno del declino industriale italiano. Il vertice sulla crisi al ministero dello Sviluppo economico si è concluso con una fumata nera. Eppure il modo in cui la negoziazione si è sviluppata, col contributo determinante della Confindustria pordenonese, nasconde i germogli di una possibile evoluzione delle nostre relazioni industriali, che va ben al di là della vicenda specifica e in qualche misura prescinde dalla sua conclusione.
I fatti, anzitutto: Electrolux è presente in Italia in quattro siti produttivi: Porcia (lavatrici), Susegana (frigoriferi), Solaro (lavastoviglie) e Forlì (forni). L’azienda arrivò negli anni Ottanta, in un contesto molto diverso dall’attuale, caratterizzato in particolare dalla presenza di un involucro molto forte di tutele pubbliche che, sostanzialmente, ponevano parte del costo del lavoro a carico della collettività. Queste condizioni – che sono in buona parte all’origine dell’attuale crisi di finanza pubblica – sono gradualmente venute meno, rendendo la produzione di elettrodomestici sempre meno competitiva, non tanto per la concorrenza di realtà extraeuropee a basso costo del lavoro, quanto per l’emergere di paesi assai più attrattivi all’interno della stessa Ue: in particolare, la Polonia. La vecchia strada della socializzazione degli extracosti – in forma di sussidio all’azienda o altro – non è più percorribile. Lo impediscono da un lato le norme europee sugli aiuti di Stato, dall’altro i vincoli sui conti pubblici.
Quindi, che fare? Per scongiurare la chiusura degli stabilimenti, Electrolux ha presentato un piano di sostenibilità che fa perno su una significativa, anche se non drammatica, riduzione delle retribuzioni, nell’ordine dei 130 euro al mese per addetti che percepivano salari attorno ai 1.300-1.400 euro. Non è detto che questa soluzione sia sufficiente, in particolare per la fabbrica di Porcia. I sindacati sembrano seguire un percorso di ragionevolezza nella trattativa, e le stesse intrusioni politiche sono, per ora, limitate, salvo la baruffa tra la presidente del Friuli Venezia Giulia (e membro della direzione nazionale del Pd) Serracchiani e il Ministro Zanonato.
La prima lezione – relativa al passato – la si può ricavare da una dichiarazione di Serracchiani, secondo cui il governo «non può rimanere inerte» alla luce del fatto che Electrolux, al momento dell’acquisizione di Zanussi che la portò a Pordenone, «ricevette un sacco di soldi, qualche miliardo di lire, dalla Regione. Dovrebbe ora preoccuparsi di quello che lascia sul territorio dopo che l’ha spolpato». Il peccato originale sta qui: i sussidi sono sempre un’arma a doppio taglio, che inevitabilmente presenta il conto e crea dipendenza. È illusoria, nella maggioranza dei casi, la speranza di attirare un investimento con la carota dei sussidi e poi pensare che esso possa rimanere remunerativo senza. Chi di sussidi ferisce, di sussidi tende a perire. E, quando ciò accade, i danni sono incalcolabili e i costi di aggiustamento e riqualificazione dei lavoratori e del territorio possono essere immensi. Gli esempi vanno da Ilva a Electrolux. La stessa disintosiccazione dagli aiuti può essere lunga e dolorosa, come dimostra il successo del riscatto di Fiat da parte di Marchionne, che prese in mano un colosso sull’orlo del fallimento.
La seconda lezione riguarda, invece, il presente. Anziché cercare improbabili interventi pubblici, gli industriali e i sindacati friulani si sono rimboccati le maniche alla ricerca di una strategia possibile. La Confindustria di Pordenone ha così prodotto un documento – affidato alla redazione di un gruppo di saggi (Tiziano Treu, Riccardo Illy, Innocenzo Cipolletta e Maurizio Castro) – che ha delineato una strategia di riduzione sostenibile del costo del lavoro. La strategia poggia su interventi sia salariali, sia di organizzazione del lavoro. Per quanto riguarda i primi, una riduzione delle retribuzioni dell’ordine di quelle richieste da Electrolux (pari a circa il 10% del netto in busta). Per quanto attiene ai secondi, vengono ipotizzati una serie di interventi su orari, turni, festività, eccetera. Una serie di misure “di cesello”, insomma, che però, nel complesso, possono contribuire un altro 10% di abbattimento del costo del lavoro.
Come scrive Castro (uno dei saggi) sul Bollettino ADAPT, la proposta ha «rimodellato e rimodulato molti istituti contrattuali, dai premi di produzione alle festività infrasettimanali, dagli orari di lavoro agli scatti di anzianità, dagli automatismi di inquadramento ai fondi sanitari integrativi, dalla partecipazione agli utili e al capitale alla formazione e all’outplacement… Insomma… una revisione dinamica, una precisa limatura e levigatura di molte voci e molti capitoli dell’impianto normativo e remunerativo del rapporto di lavoro».
Tutto questo è necessario, ma non sufficiente; né basta, per completare l’operazione, la disponibilità dell’azienda a collegare la diminuzione salariale a un piano credibile di permanenza nel Paese nel medio termine, come ha esortato Michele Tiraboschi. Lo stesso futuro di Porcia rimane incerto. È fondamentale, per il futuro, per limitare la probabilità di ulteriori crisi e magari creare nuove opportunità lavorative, intervenire seriamente sul cuneo fiscale. Lo chiedono gli stessi saggi di Pordenone, ma lo gridano soprattutto i dati, secondo cui l’Italia è tra i paesi con la più alta pressione fiscale sul lavoro, senza però che a questo corrispondano servizi e welfare adeguati. Pochi conti rivelano che – per ottenere lo stesso effetto di riduzione del 20% del costo del lavoro reso possibile dalla ristrutturazione Electrolux – basterebbe intervenire sul cuneo riducendolo di circa 10 punti, prendendo per buoni i calcoli “spannometrici” di Giulio Zanella e correggendoli per tenere conto che la sua ipotesi di partenza si basava su un’informazione inizialmente circolata e poi rivelatasi sbagliata (sull’entità del taglio al costo del lavoro).
Il punto sostanziale è insomma che il costo del lavoro è pesantemente influenzato dalla componente fiscale e contributiva, ma le aziende – in assenza di interventi normativi – possono incidere solo sul salario e l’organizzazione, scaricando ogni aggiustamento per intero sulle spalle del lavoratore. Se vogliamo impedire che questo accada, o ripartire più equamente gli sforzi, non possiamo ignorare il cuneo fiscale: cioè, non possiamo non intervenire sulla spesa pubblica (a partire da quella per pensioni e interessi) la cui entità giustifica e richiede l’attuale pressione fiscale. Che la riduzione del cuneo sia la priorità lo riconoscono tutti i partiti, che ne hanno in qualche modo parlato nei propri programmi. Già da due anni Giavazzi ha indicato nel taglio dei sussidi alle imprese la via maestra per finanziare l’operazione.
Nel caso Electrolux la possibile soluzione verrà, se verrà, dalla buona volontà dell’azienda, dalla collaborazione dei sindacati e dal dinamismo della Confindustria pordenonese. Ma né Electrolux, né altre aziende italiane e straniere potranno veramente competere ad armi pari coi concorrenti stranieri finché la spesa pubblica non sarà assoggettata a una piena e aggressiva revisione, che ne tocchi sia la qualità sia i livelli, e che non può che derivare – per riprendere la riflessione di Nicola Rossi – da un coraggio politico che finora è mancato.
La soluzione dei mille casi Electrolux che il nostro Paese dovrà affrontare dipende criticamente da una variabile: la spending review e la volontà dei partiti di metterla in atto. Waiting for Mr Cottarelli.
Carlo Stagnaro
@CarloStagnaro
Alberto Saravalle
@ASaravalle
L’Huffington Post
* Il presente articolo è pubblicato anche in L’Huffington Post, 29 gennaio 2014.