Nella seduta del 10 febbraio 2014, il portavoce M5S alla Camera dei Deputati Francesco D’Uva ha sollevato in Parlamento la centralità del tema dei dottorati industriali. Un tema apparentemente di nicchia e di interesse per pochi specialisti, e che tuttavia potrebbe rivelarsi decisivo per il rilancio della produttività e dello sviluppo della economia e della società attraverso maggiore innovazione e ricerca.
Non è chiaro, tuttavia, cosa siano i dottorati industriali e anche il Consiglio dei Ministri del 6 febbraio, nel presentare un piano di azione a sostegno della ricerca di 250 milioni di euro a sostegno delle attività di ricerca e sviluppo parla, molto più genericamente e confusamente, di “dottorati di ricerca nel settore industriale”.
Dal punto divista definitorio, D’Uva qualifica il dottorato industriale come “un peculiare modello di dottorato di ricerca, già presente nei principali sistemi formativi europei, che intende creare un’efficace forma di raccordo tra l’alta formazione universitaria e il sistema industriale”. Prosegue inoltre affermando che “attraverso l’attivazione di tali corsi gli studenti hanno la possibilità di raggiungere i più alti livelli di formazione nel campo della ricerca industriale, attraverso lo svolgimento dei corsi di specializzazione all’interno di un’impresa che svolge attività di ricerca e sviluppo”.
Le istituzioni rilanciano quindi il tema, anche se restano notevoli dubbi a livello definitorio. Il termine “dottorato industriale” viene introdotto nel nostro ordinamento per la prima volta con l’articolo 11, comma 2 del decreto ministeriale 8 febbraio 2013 n. 45 che dà tuttavia per scontata la nozione. In particolare, il decreto, non solo non definisce il concetto di “dottorato industriale”, ma menziona tre fattispecie diverse di dottorato “innovativo”.
Una prima fattispecie è relativa al “dottorato in collaborazione con le imprese” che si realizza attraverso il convenzionamento dei corsi e delle scuole di dottorato con “imprese che svolgono attività di ricerca e sviluppo”.
Una seconda fattispecie, è quella dei “dottorati industriali”, sicuramente distinta dalla precedente come si evince dalla formulazione dell’incipit del comma 2 dell’articolo 11 che prevede come, accanto ai dottorati in collaborazione con le imprese di cui al comma 1, “le università possono altresì attivare corsi di dottorato industriale” (corsivo nostro), ma non ulteriormente precisata.
La terza fattispecie è quella dei contratti di apprendistato di alta formazione, in quanto, come indica il comma 4 del regolamento, “resta in ogni caso ferma la possibilità, prevista dall’articolo 5 del decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, di attivare corsi di dottorato in apprendistato con istituzioni esterne e imprese”.
Se l’obiettivo è quello di allinearsi alle migliori pratiche europee come sottolineato dal decreto ministeriale nonché dall’onorevole D’Uva, per tentare di comprendere questi concetti in lingua italiana, occorre capire cosa si intenda con la locuzione “dottorato industriale (industrial doctorate) nell’Unione Europea, da cui discende la terminologia in uso nel nostro Paese.
Il Rapporto della Commissione Europea, Mapping Exercise on Doctoral Training in Europe – Toward a common approach, precisa al paragrafo 3 che la locuzione “dottorato industriale” va intesa in senso ampio e atecnico “includendo tutti i settori del mercato del lavoro privato e pubblico, dalle imprese profit, alle istituzioni pubbliche, fino a ONG e istituzioni di tipo caritatevole o culturale”.
La terminologia scelta in questo caso a livello comunitario è probabilmente, come spesso accade, un prestito da altre lingue. Le istituzioni europee potrebbero aver tratto la locuzione “industrial doctorate” da quelle lingue in cui questo concetto già esisteva, vale a dire da Paesi che effettivamente già prevedevano l’istituto del “dottorato industriale”. La presenza dell’aggettivo “industriale” è di probabile derivazione storica, in quanto, in Paesi come la Danimarca, quando l’istituto venne introdotto negli anni Settanta, si trattava di una interazione tra università e settore industriale in senso stretto. Una volta adottata a livello comunitario, la locuzione ha subito uno slittamento di significato diventando un concetto molto più ampio ed inclusivo.
In lingua italiana, il termine parrebbe una traduzione dell’espressione europea sinora descritta. Tuttavia, in italiano, la nozione di “dottorato industriale” potrebbe essere utilizzata con un un significato diverso rispetto al concetto di “industrial doctorate”. La distinzione tra due fattispecie, nonché le parole del ministro Carrozza, potrebbero far pensare infatti ad una diversa interpretazione. Il vocabolo “industriale” potrebbe doversi intendere in italiano non tanto con l’accezione ampia di matrice europea, quanto piuttosto in senso stretto, vale a dire “relativo all’industria”, come da dizionario di lingua italiana.
La presenza di una voluta distinzione tra due fattispecie nel decreto ministeriale n. 45 dell’8 febbraio 2013 potrebbe pertanto spiegarsi in questo modo. La differenziazione potrebbe indicare che con il termine “dottorato industriale” ci si riferisca, in lingua italiana, limitatamente al settore dell’industria. La fattispecie del “dottorato in collaborazione con le imprese” diventerebbe quindi complementare al “dottorato industriale” in quanto più ampia ed inclusiva, con l’obiettivo di allargare la possibilità di svolgere dottorati di ricerca “innovativi” anche ai settori non industriali.
Tale distinzione tra il significato europeo (ampio) e significato italiano (ristretto) attribuito al termine “industriale” potrebbe costituire la chiave di lettura per spiegare la distinzione tra le due fattispecie, oltre che aiuterebbe a comprendere il concetto di “dottorato di ricerca nel settore industriale” di cui parla il ministro Carrozza, che quindi si riferirebbe limitatamente al settore dell’industria, ovvero alla seconda fattispecie prevista dal decreto n. 45. E questo, come precisato in altra sede, sarebbe un gravissimo errore perché significherebbe agganciare l’innovazione dei dottorati industriali a una concezione vecchia del mondo del lavoro e del sistema produttivo oggi più che mai fluida e interdisciplinare (M. Tiraboschi, Dottorati Industriali e Mercato del Lavoro: appunti per una ricerca, anticipazione DRI, anno 2013).
La distinzione è sottile e ambigua, oltre che non è chiaro in cosa si sostanzi nella pratica tale differenziazione. Un esempio della mancanza di chiarezza a livello terminologico è l’intervento stesso dell’onorevole D’Uva che parrebbe ricomprendere nella categoria di “dottorato industriale” tanto il dottorato industriale in senso stretto, vale a dire la seconda fattispecie prevista dal decreto, quando parla di “raccordo tra l’alta formazione universitaria e il sistema industriale”, quanto la prima tipologia (il dottorato in collaborazione con le imprese) quando fa riferimento a “corsi di specializzazione all’interno di un’impresa che svolge attività di ricerca e sviluppo” omettendo di apporre l’aggettivo “industriale”.
Fondamentale sarebbe dunque, nel tentativo di far davvero entrare l’Italia nello spazio europeo della ricerca, utilizzare le definizioni comunitarie che sono inequivocabili – e lungimiranti al tempo stesso – nel precisare che la locuzione “dottorato industriale” vada intesa in senso ampio e atecnico “includendo tutti i settori del mercato del lavoro privato e pubblico, dalle imprese profit, alle istituzioni pubbliche, fino a ONG e istituzioni di tipo caritatevole o culturale”. Le indicazioni contenute nei “Principi per una innovazione nei percorsi formativi di dottorato di ricerca” confermano in effetti una interpretazione ampia e inclusiva dell’articolo 11 del decreto ministeriale 8 febbraio 2013 che solo in questo modo sarebbe in linea con le principali esperienze di dottorato industriale presenti in Europa.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
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