La Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2 della Direttiva 98/59/CE del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi: questo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza del 13 febbraio 2014, C-596/2014, che prende le mosse da un ricorso promosso il 20 dicembre 2012 dalla Commissione europea avverso lo Stato Italiano.
Vista la mancata ricezione della summenzionata Direttiva comunitaria, per i dirigenti è rimasta, fin d’ora, in vigore la l. 223/91, art. 4, comma 9, che esclude i dirigenti dalle tutele e garanzie procedurali – informazione e la consultazione dei lavoratori sul posto di lavoro – previste in ipotesi di licenziamento collettivo per tutti gli altri lavoratori dipendenti.
Oggetto dell’infrazione, dunque, secondo la Corte di Giustizia europea, sarebbe proprio la mancata ricezione della disposizione comunitaria, in palese violazione di principi costituzionali cardine nell’ordinamento giuridico italiano oltre che in contrasto con orientamenti giurisprudenziali ormai dominanti in merito ai rapporti tra normativa comunitaria e norma interna.
Il principio della supremazia del diritto comunitario su quello interno è sancito, in primis, dall’art. 117 della Costituzione quando si stabilisce che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali».
Sulla stessa scia la Corte Costituzionale – sentenza n. 64/1990 e n. 168/1991 – ha stabilito che le direttive comunitarie cosiddette self executing sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno dello Stato membro, obbligando non solo il giudice ma altresì la Pubblica Amministrazione a disapplicare la normativa interna incompatibile. Tuttavia, affinché tale principio di diritto sia effettivo e possa essere oggetto di contenzioso privato è necessario – come precisa la Corte di Giustizia europea C-403/01 – che tali direttive contengano norme incondizionatamente e sufficientemente precise e che lo Stato membro non abbia adottato, nel termine previsto dalla stessa direttiva, le necessarie disposizioni di attuazione o che detta attività sia stata svolta in maniera non corretta.
La direttiva 98/59/CE è stata giudicata dalla Corte di Cassazione priva di tale natura auto-esecutiva oltre che non suscettibile di una interpretazione capace di armonizzarla con la normativa interna contrastante; da qui discende la possibilità per i dirigenti, che nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo si sentano lesi, di poter agire in giudizio contro lo Stato solo per il risarcimento del danno causato dal medesimo per tardiva o inesatta trasposizione in ambito nazionale dei principi espressi in sede comunitaria.
Tralasciando gli aspetti più squisitamente tecnici, focalizzando invece l’attenzione sulla sostanza, sul cuore della sentenza in commento, l’obiettivo che la stessa si pone è quello di porre fine ad una iniqua disparità di trattamento che si protrae illecitamente da ormai troppo tempo: ai dirigenti, da sempre ricompresi nel computo utile ai fini della qualificazione del licenziamento quale “collettivo”, va riconosciuto il diritto, attraverso la sua Organizzazione di rappresentanza, di essere uniformato e consultato sulle motivazioni che sono alla base di tale decisione al fine, come afferma la sentenza in questione, di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi previsti, oltre che quello di avere un tavolo di consultazione riguardo agli effetti che tali procedure potrebbero produrre nei loro confronti.
D’altronde il dirigente, come sottolinea Mario Cardoni presidente di Federmanager – la Federazione nazionale che rappresenta dirigenti e quadri superiori del settore industria – è un lavoratore subordinato, seppur con alcune peculiarità, che, tra l’altro, versa il contributo di mobilità senza poter godere dell’indennità nel caso si crei l’esigenza: se si parte da questi presupposti è impensabile perpetrare tale iniquità come, forse distrattamente, è stato fatto dal legislatore italiano fino ad ora.
La sentenza dunque non intende soffermarsi sull’annosa questione di estendere o meno lo strumento della mobilità anche ai dirigenti ma punta su aspetti di tutela preventiva, auspicando di poter contribuire a creare un sistema idoneo ad evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, piuttosto che soffermarsi sulle sue conseguenze economiche degli stessi: magari un sistema non identico a quello degli altri lavoratori ma che garantisca adeguate tutele e la giusta dose di dignità.
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