L’ultimo Global gender gap index del World Economic Forum segna un miglioramento per l’Italia, che dal 2006 anno del primo rapporto sale di 9 posizioni, raggiungendo il 71° posto (per approfondimenti si veda V. Sorci, R. Zucaro, Il gender gap: l’analisi del World Economic Forum, in DRI, 2014, n. 1).
Al progresso – comunque ridotto, essendosi attestato solo in un punto percentuale – ha concorso anche l’aumento della presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate, per effetto della legge n. 120/2011, la cd. Golfo-Mosca, che ha introdotto in tale contesto un sistema temporaneo di “quote rosa”. Secondo dati aggiornati ad agosto 2013, le donne nei boards sono passate da un modesto 7% al 17%, e in quelle controllate direttamente dal Ministero dell’Economia al 20% (si veda European Commission, Women and men in leadership position in the European Union 2013). Le quote hanno quindi accelerato un processo che se fosse proseguito al tasso medio precedente alla loro previsione, la quota del 33% imposta dalla legge, non si sarebbe potuta raggiungere prima del 2075 (secondo stime della Banca d’Italia riportate nel rapporto curato da M. Bianco-F. Lotti-R. Zizza, Le donne e l’economia italiana, 2013).
Gli esiti determinati da questa forma di azioni positive sono stati così evidenti da essere anche particolarmente apprezzati dalla Cancelliera tedesca, Angela Merkel, la quale da sempre contraria alla loro introduzione, sembra aver mutato orientamento e ne sta valutando l’adozione, negli stessi termini, anche in Germania.
Nel complesso, però, il quadro sulla parità di genere è tutt’altro che positivo, se si considera solo l’aspetto che l’Italia rappresenta il fanalino di coda tra i Paesi dell’Unione Europea, e che si trova comunque in posizione deteriore rispetto a realtà come la Cina e il Senegal.
Uno dei fattori, che maggiormente pesano in negativo sul risultato italiano, è il gender gap inerente alla rappresentanza politica, la quale presenta un dato al di sotto della media mondiale: il 19% rispetto al 21%.
In virtù di ciò, l’approvazione della nuova legge elettorale, riaccende il dibattito sulle quote rosa. Infatti, tali “discriminazioni al contrario”, introdotte in più di 100 paesi al mondo, (si veda www.quotaproject.org contenente dettagliate schede Paese sul punto) costituiscono uno degli strumenti più utilizzati ed efficaci per promuovere il riequilibrio di genere nell’empowerment politico.
Non è un caso che Paesi, non solo uno tra gli appartenenti alla schiera dei più virtuosi nel superamento del divario di genere, ossia la Svezia (44,7%), ma addirittura anche realtà quali il Rwanda (64%), presentino le più alte percentuali al mondo di donne parlamentari; entrambi hanno adottato un sistema di quote di genere.
Ai fini dell’efficacia di tali azioni positive, è essenziale però che siano compatibili con il modello elettorale in vigore e i relativi meccanismi – per esempio, il 40% di donne nelle liste elettorali – nonché coordinati con le norme inerenti all’ordine dei candidati nelle liste, oltre ad essere collegate ad un sistema di sanzioni giuridiche efficaci, in caso di violazione, come si evince anche dalle conclusioni del Rapporto del Parlamento europeo, Electoral gender quota system and their implementation in Europe 2013.
Il Governo Renzi, recentemente insediatosi, dà un segnale positivo avendo previsto una paritaria presenza di genere nella sua composizione (sebbene il segnale venga un po’ incrinato dalla mancanza del Ministero delle Pari opportunità e dalla scelta di solo 9 Sottosegretari donne su 44 e nessuna Viceministra) ed essendosi instaurato in una legislatura che vede il numero di parlamentari donne più elevato della storia della Repubblica italiana.
Questo può, anzi deve costituire il “terreno” fertile affinché il riequilibrio di genere nell’empowerment politico diventi obiettivo concretamente perseguito con strumenti ad hoc.
La violenza di genere, la disoccupazione femminile, il gap retributivo si combattono anche aumentando il numero delle donne presenti nelle “stanze dei bottoni”; perché a contribuire in numero rilevante alle scelte di politica legislativa, sarebbero le prime portatrici dell’interesse che si andrebbe a tutelare e si avrebbe un forte ausilio nel processo verso l’abbattimento delle barriere invisibili, ma più dure a cadere, che sono quelle culturali.
Nell’ambito dell’empowerment economico, ad esempio si sta già assistendo ai primi risultati, che non sono tanto nei numeri di donne nei cda in sé, quanto nella accresciuta trasparenza del percorso di analisi e scelta dei curriculum vitae; a ciò si aggiungono aspetti particolarmente importanti, ossia l’effetto moltiplicatore per una nuova cultura manageriale della Governance ed è noto che il diversity management contribuisca fortemente al successo dell’organizzazione aziendale.
Dall’esperienza degli altri paesi, la Norvegia ad esempio, è possibile trarre che i boards su cui hanno inciso le quote di genere non hanno avuto ricadute solo sul singolo contesto aziendale, per esempio hanno licenziato meno lavoratori e hanno mostrato una maggiore attenzione al welfare dei dipendenti, ma anche sull’intera società, concorrendo ad innalzare i tassi di occupazione femminile.
Il momento storico, in cui anche la crisi chiede risposte nuove e diverse, può essere trasformato nell’opportunità per fare un ulteriore passo dando concreta attuazione all’art. 51 della Costituzione, laddove prevede che «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@RositaZucaro