Le recenti proposte politiche in materia di riforma del mercato del lavoro hanno riportato al centro del confronto la tematica del “contratto unico di lavoro ” (nel Jobs Act di Matteo Renzi si parla di “contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”), con le relative proposte normative e le suggestioni che in questi anni hanno accompagnato il dibattito su tale “strumento”, spesso visto come una sorta di spada capace di tagliare con un solo colpo il nodo gordiano della precarietà del lavoro nel nostro paese. La tematica del contratto unico ha avuto una attenzione specifica a partire dal 2008, in particolare in seguito alla pubblicazione del libro di Tito Boeri e Pietro Garibaldi e alla presentazione delle proposte di legge di Ichino e Nerozzi.
L’analisi di Boeri e Garibaldi parte da un dato oggettivo, l’esistenza nel nostro Paese di un mercato del lavoro “duale”. L’Italia ha effettivamente uno dei regimi di protezione all’impiego per i lavoratori a tempo indeterminato più restrittivi dell’area OCSE, a fronte di meccanismi di protezione dei disoccupati fortemente squilibrati e parziali, ma i due autori individuano la causa del mercato del lavoro duale in particolare nei «ripetuti interventi legislativi che hanno profondamente modificato la fisionomia del panorama lavorativo in Italia. Si è trattato di una vera e propria rivoluzione silenziosa che ha preso l’avvio lentamente, con l’introduzione, negli anni Ottanta, dei contratti di formazione lavoro e del part-time, ed è proseguito dalla metà degli anni Novanta con l’accelerazione imposta alle riforme dal pacchetto Treu del 1997» (T. Boeri, P. Garibaldi, Un nuovo contratto per tutti, Chiarelettere, ottobre 2008).
La riforma Treu e la Legge Biagi sono considerate da Boeri e Garibaldi la causa di «una sorta di apartheid, un mercato doppio, in cui lavoratori ipertutelati lavorano gomito a gomito con colleghi che svolgono le stesse mansioni, magari più qualificati, ma che hanno una scadenza scritta sul loro contratto, godono di scarse tutele e pagano contributi talmente bassi che rischiano di percepire un giorno pensioni da fame», e in questa condizione sarebbero stati relegati – nel 2008 – quattro milioni e mezzo di lavoratori, «i lavoratori a termine erano circa due milioni e centottantanovemila, circa il 9,4% degli occupati. I cosiddetti finti consulenti, quei lavoratori autonomi che di fatto sono lavoratori parasubordinati, possono essere stimati (sulla base di un’indagine svolta dall’Isfol nel 2006) in circa un milione e quattrocentomila, un altro 6% dell’occupazione. […] A questi vanno infine aggiunti i 640.000 lavoratori part-time che vorrebbero un lavoro full-time e 260.000 apprendisti» (cit.).
Secondo Boeri e Garibaldi la soluzione a tale situazione è l’introduzione di contratto unico a tempo indeterminato con tutele crescenti «che garantisca un sentiero graduale, a tappe, verso la stabilità. La fase di inserimento del contratto dura per i primi tre anni di vita del contratto. Durante la fase di inserimento il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria, fatta salva l’ipotesi di licenziamento per giusta causa nei casi in cui il licenziamento sia determinato da motivi discriminatori si applica la tutela prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. […] Superata la fase di inserimento, il contratto unico viene regolato dalla disciplina dei licenziamenti oggi prevista» (cit.).
Il contratto unico proposto prevede un sostanziale superamento delle forme contrattuali “flessibili” esistenti, anche se gli autori affermano che i contratti esistenti «rimarranno a condizione di rispettare gli standard minimi, sia in termini di salario minimo, sia in termini di contributi previdenziali obbligatori. Lavoratore e datore di lavoro sceglieranno il contratto unico semplicemente perché è conveniente» (cit.).
Come abbiamo precedentemente visto, Boeri e Garibaldi annoverano tra le tipologie contrattuali “precarie” anche l’apprendistato, il quale dovrebbe essere conseguentemente adeguato agli standard del contratto unico o addirittura superato, in quanto «contrariamente all’apprendistato, il contratto unico è applicabile a tutti, non soltanto agli under 30, quindi facilità l’inserimento delle donne dopo il periodo di maternità e il reintegro dei lavoratori anziani. E non prevede riduzioni dei contributi previdenziali, come avviene per l’apprendistato» (cit.).
Le riflessioni di Boeri e Garibaldi sono alla base del Proposta di legge n. 2000/2010 di Nerozzi e altri, finalizzata a «ricomporre in uno schema unitario le prestazioni oggi più esposte alla precarizzazione, offrendo contestualmente alle imprese quella maggiore flessibilità in entrata necessaria per scommettere con minor rischio sulle performance di produzione nel medio periodo».
Lo strumento contrattuale proposto è denominato “contratto unico di ingresso (CUI)” e si articola in due fasi: una “fase di ingresso”, di durata non superiore a tre anni, e una successiva, definita “fase di stabilità”, nella quale il CUI è a tutti gli effetti un contratto di dipendenza a tempo indeterminato caratterizzato da un meccanismo di tutela progressiva della stabilità. Rispetto alle forme di flessibilità in entrata oggi disponibili, il CUI offre al lavoratore un’indennità di licenziamento di entità rapportata alla durata del rapporto – anche nella fase caratterizzata dal minor grado di protezione, ossia quella di ingresso. A questo fine, il disegno di legge propone la modifica della disciplina in materia di contratti a termine, prevedendo, accanto alla reintroduzione di vincoli causali oggettivi (stagionalità, sostituzione temporanea di lavoratori, lavori nello spettacolo), un vincolo – indipendente dai precedenti – riferito esclusivamente al contenuto economico minimo della prestazione lavorativa, fissato in 25 mila euro annui lordi per una prestazione a tempo pieno o l’importo equivalente pro quota per durate inferiori. Inoltre, «allo scopo di aumentare la partecipazione dei datori di lavoro ai costi sostenuti dalla collettività per il mancato rinnovo di tali contratti», è previsto per i contratti a termine l’incremento di un punto percentuale dell’aliquota contributiva per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria.
Il Disegno di legge n. 2000/2010 riconosce, inoltre, l’esigenza di portare gradualmente allo stesso livello del lavoro dipendente la contribuzione previdenziale dovuta per i collaboratori iscritti in via esclusiva alla Gestione separata INPS. Per quanto riguarda il profilo retributivo, la proposta prevede per le collaborazioni a monocommittenza un contenuto economico minimo, al di sotto del quale devono a tutti gli effetti ritenersi delle prestazioni di lavoro subordinato: nello specifico si indica la soglia dei 30mila euro lordi annui, al di sotto della quale il rapporto di lavoro autonomo continuativo, di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione – con committenza pubblica o privata – dal quale il prestatore tragga più di due terzi del proprio reddito di lavoro complessivo, sia considerato a tutti gli effetti un contratto unico di ingresso, a meno che il lavoratore sia iscritto a un albo o un ordine professionale incompatibile con la posizione di dipendenza dall’azienda. Per i giovani professionisti in avvio di carriera, il limite si dimezza per i primi due anni di iscrizione ad una gestione di previdenza obbligatoria.
Con il recente Disegno di legge n. 1006/2013, Ichino indica la necessità di una ridefinizione della disciplina del lavoro dipendente e del lavoro subordinato, proponendo che sia considerato «prestatore di lavoro subordinato colui che si sia obbligato, dietro retribuzione, a svolgere per una azienda in modo continuativo una prestazione di lavoro personale soggetta al potere direttivo del creditore». Nello specifico Ichino propone che sia considerato «prestatore di lavoro dipendente da un’azienda» non solo il lavoratore subordinato, ma anche il lavoratore autonomo continuativo, l’associato in partecipazione, o il socio lavoratore di società commerciale, che traggano più di tre quarti del proprio reddito di lavoro complessivo dal rapporto con l’azienda medesima, a meno che non sia presente una delle seguenti condizioni:
a) la retribuzione annua lorda annua del collaboratore autonomo o dell’associato in partecipazione superi i 40.000 euro. Tale limite si dimezza per i primi due anni di esercizio dell’attività professionale;
b) il collaboratore autonomo, l’associato in partecipazione o il socio lavoratore sia iscritto a un albo o un ordine professionale incompatibile con la posizione di dipendenza dall’azienda.
Analoghe proposte erano contenute nel DDL n. 1481/2009, nel quale Ichino proponeva un percorso basato sulla sperimentazione di un contratto collettivo di transizione, applicabile a tutti i nuovi assunti in posizione di dipendenza economica, secondo le specifiche precedentemente esposte con riferimento al DDL n. 1006/2013.
Le proposte di carattere sperimentale indicate nel DDL n. 1481/2009 hanno assunto carattere organico nel DDL n. 1873/2009, nel quale Ichino propone una profonda rivisitazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300), prospettando – qualora siano maturati due anni di anzianità di servizio – l’instaurazione di un contratto di ricollocazione tra l’impresa e il lavoratore, il quale prevede:
– Un trattamento complementare di disoccupazione tale da garantire al lavoratore per il primo anno il 90% dell’ultima retribuzione (con il tetto di 3000 euro al mese); in caso di necessità l’80% il secondo anno e il 70% il terzo. La durata del trattamento è pari all’anzianità di servizio maturata dopo i primi due anni, con un massimo di tre anni (gli anni previsti erano invece quattro nella versione sperimentale del DDL n. 1481/2009);
– l’attivazione di servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata, ai livelli migliori disponibili nel mercato del lavoro. Il costo di questi servizi può essere rimborsato dalla Regione, anche con il contributo del Fondo sociale europeo.
Nel nuovo regime, il controllo giudiziale sarebbe limitato ai soli licenziamenti disciplinari e a quelli discriminatori. Per i licenziamenti dettati da motivi economici od organizzativi, invece, l’idea centrale è la sostituzione integrale del controllo giudiziale con una ragionevole responsabilizzazione dell’impresa per la ricollocazione del lavoratore.
Dopo il periodo di prova, della durata di sei mesi, il lavoratore licenziato per motivi economico-organizzativi avrebbe sempre diritto a un’indennità di licenziamento pari a una mensilità per anno di anzianità di servizio, convertibile a scelta del lavoratore in un preavviso lungo, fino a un massimo di sei mesi, con costo aziendale invariato. La stessa indennità, senza convertibilità in preavviso, sarebbe dovuta al lavoratore anche in caso di contratto a termine, se esso non si converte in contratto a tempo indeterminato.
Le proposte di Ichino, sia nella versione sperimentale (DDL n. 1481), sia nella versione organica (DDL n. 1873), non prevedono quindi una “deroga” temporanea all’articolo 18 – presente invece nel progetto Boeri-Garibaldi – bensì un regime generale radicalmente alternativo all’articolo 18, ispirato al modello scandinavo. La nuova disciplina prevista nei DDL. n. 1481 e 1873 si applicherebbe soltanto ai lavoratori assunti dal momento della sua entrata in vigore in avanti, accorpando in un unico nuovo sistema di protezione unitario tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza economica (quindi anche quasi tutti quelli che oggi sono qualificati come “parasubordinati” e molti di quelli che oggi lavorano “con partita Iva”, pur traendo di fatto un uno stipendio “limitato” da un unico committente).
Più recentemente, attraverso il Disegno di legge n. 555/2013 (presentato dal Gruppo di Scelta Civica al Senato), Ichino propone una soluzione alla «grave difficoltà della regolarizzazione delle centinaia di migliaia di collaborazioni continuative autonome non rispondenti ai criteri posti dal d.lgs. n. 276/2003 e rafforzati dalla legge n. 92/2012». Nello specifico, il disposto normativo propone di rispondere all’emergenza sopra menzionata offrendo a imprese e lavoratori la possibilità di sperimentare, in sede di regolarizzazione di vecchie collaborazioni autonome continuative, o di costituzione di nuovi rapporti, un modello di contratto di lavoro dipendente meno costoso (per la riduzione del cuneo fiscale e contributivo che separa il costo del lavoro dalla retribuzione netta). Il nuovo modello di contratto di lavoro dipendente comporta l’assunzione da parte del datore di lavoro, per il caso di licenziamento dettato da motivi economico-organizzativi, di un “costo di separazione” – di entità limitata nella prima fase del rapporto, via via crescente col crescere dell’anzianità di servizio dal terzo anno in avanti – lasciando tuttavia libero il datore di lavoro di scegliere tra la forma ordinaria del rapporto di lavoro dipendente e la nuova sperimentale. Il progetto prevede che la stipulazione del contratto secondo il nuovo modello debba essere preceduta e prevista da un contratto aziendale di sperimentazione.
Nel Progetto di legge n. 2630 del 2009, presentata dall’attuale responsabile del lavoro del Partito Democratico, Marianna Madia, si propone l’istituzione del “contratto unico di inserimento formativo (CUIF)”, finalizzato non a costituire un contratto diverso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, bensì ad «agevolare le assunzioni a tempo indeterminato e renderle più convenienti”, attraverso “una nuova e unificante forma di accesso al lavoro che coniuga convenienza economica per le imprese, percorsi di formazione, flessibilità iniziale e processi di stabilità, assorbendo così le diverse e preesistenti modalità di accesso al lavoro».
Nelle intenzioni dei proponenti, «il CUIF sostituisce l’apprendistato professionalizzante e di alta qualifica, i contratti a tempo determinato, salvo i casi indicati, i contratti di collaborazione per le basse qualifiche, il lavoro intermittente, il lavoro ripartito, i contratti di inserimento, il contratto di formazione e lavoro». Relativamente a tale proposta, occorre precisare che il contratto di inserimento è stato abrogato dalla legge n. 92/2012, mentre il contratto di formazione e lavoro era stato superato (per il settore privato) con il Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
Per quel che riguarda il «contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione», viene proposta la nuova denominazione di «contratto di apprendistato per il conseguimento di una qualifica professionale», e diversi criteri con riferimento all’età degli apprendisti, fissata tra i sedici e i diciotto anni. Le modifiche proposte sono giustificate «dai problemi emersi in questi anni in relazione all’utilizzo di questa tipologia contrattuale».
Per le forme di lavoro flessibile che permangono sono previsti il salario minimo e l’estensione degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro.
Il CUIF delineato è un contratto a causa mista di natura subordinata, che può essere utilizzato dai datori di lavoro pubblici e privati che all’atto della stipula e nei dodici mesi precedenti non hanno in atto procedure di cassa integrazione guadagni straordinaria né hanno proceduto a riduzioni di personale di pari qualifiche e mansioni, ivi compresa la riduzione di personale operante con CUIF.
Il CUIF, il quale può essere utilizzato dai datori di lavoro una sola volta con lo stesso lavoratore, consiste in un percorso incentivato di accesso o reinserimento al lavoro suddiviso in un primo periodo di «abilitazione» a tempo determinato, a cui segue l’assunzione a tempo indeterminato. All’atto dell’assunzione a tempo indeterminato, inizia il periodo, denominato di «consolidamento professionale», di durata pari all’«abilitazione».
Il periodo di «abilitazione» può avere una durata minima di sei mesi e massima di tre anni; tale durata è definita dai contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, in base alla professionalità da conseguire e alle caratteristiche della formazione.
Sessanta giorni prima della scadenza del periodo di «abilitazione», il datore di lavoro comunica al lavoratore e all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), se il contratto viene interrotto o se prosegue con la conversione a tempo indeterminato. In quest’ultimo caso, al contratto a tempo indeterminato non si può apporre un ulteriore periodo di prova.
Come già detto, il CUIF prevede il superamento dell’apprendistato professionalizzante e di alta qualificazione e del contratto di lavoro a tempo determinato: quest’ultimo permane esclusivamente nei seguenti casi:
a) quando la natura dell’attività lavorativa è stagionale;
b) in caso di sostituzione di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto di lavoro, purché nel contratto a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione;
c) nel caso di picchi produttivi non programmabili e circoscritti nel tempo, previo accordo sindacale;
d) nelle assunzioni di personale per specifici spettacoli o programmi radiofonici o televisivi;
e) quando l’assunzione ha luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio aventi carattere straordinario od occasionale.
Nel caso di altre fattispecie oltre quelle sopra descritte, la proposta Madia prevede la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro solo attraverso la contrattazione collettiva nazionale o aziendale stipulata dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Con l’entrata in vigore del CUIF, le collaborazioni coordinate e continuative e i rapporti di lavoro a progetto od occasionali di cui al titolo VII, capo I, del Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, nonché le prestazioni d’opera di cui all’articolo 2222 del codice civile non potrebbero essere attivate per basse qualifiche e per le mansioni il cui contenuto sia prevalentemente esecutivo. Le basse qualifiche sarebbero definite nella contrattazione collettiva nazionale stipulata tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
La proposta prevede inoltre l’abrogazione espressa degli articoli relativi agli strumenti contrattuali assorbiti: il lavoro intermittente, il lavoro ripartito, il contratto di formazione e lavoro, l’apprendistato professionalizzante e di alta qualificazione disciplinati dal Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, nonché le estensioni alle causali per l’apposizione di un termine al contratto di lavoro e all’ambito di applicazione del contratto accessorio, introdotte dal Decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2008, n. 133.
La proposta di CUIF prevede la fissazione dei parametri relativi alla retribuzione e agli incentivi. La retribuzione è fissata dai CCNL ed è calcolata mediante una quota percentuale, non inferiore al 65%, sui minimi stabiliti per i lavoratori con medesime qualifiche e mansioni. È prevista una progressione della retribuzione legata all’acquisizione della professionalità ed esperienza fino al raggiungimento della parità con la retribuzione di riferimento. A tale retribuzione non può essere applicata alcuna forma di ulteriore riduzione del compenso dei lavoratori con CUIF.
Durante il periodo di «abilitazione» se l’azienda dimostra, alla fine di ciascun anno, di aver svolto la formazione, nei tempi e modalità stabilite dai CCNL di settore, si prevede l’applicazione per ciascun lavoratore una contribuzione del 25%.
Il livello di contribuzione applicato al CUIF durante il periodo di «consolidamento professionale» è pari al 21% per il quarto anno, 23% per il quinto anno e 25% per il sesto anno.
L’assunzione con CUIF è subordinata all’approvazione, entro trenta giorni dalla presentazione della richiesta da parte del datore di lavoro, della direzione provinciale o regionale del lavoro competente per territorio, che deve comunicare il suo assenso o rifiuto alle organizzazioni sindacali provinciali o regionali e ai centri per l’impiego competenti per territorio. La contrattazione nazionale stipulata tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale può demandare l’approvazione dei piani formativi e delle forme di erogazione della formazione ai fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua, di seguito «fondi interprofessionali», ovvero a enti bilaterali individuati dalle medesime organizzazioni.
La formazione prevista dai CUIF prevede l’affiancamento sul luogo di lavoro e corsi di formazione, anche esterni all’azienda. Le aziende possono avvalersi, previo accordo sindacale aziendale o territoriale, dei fondi interprofessionali. Nel periodo di «abilitazione», il rapporto di lavoro può essere interrotto per giusta causa oppure da entrambe le parti col preavviso stabilito dal relativo CCNL.
Infine, la proposta prevede l’istituzione di un «salario minimo nazionale previsto unicamente per i soggetti ai quali non si applicano i CCNL».
Le differenti proposte descritte partono da un dato oggettivo, l’esistenza di un mercato “duale”, il quale però non può essere unicamente ricondotto all’esistenza di molteplici strumenti contrattuali, ma è bensì sopratutto dovuto alla presenza, nel nostro paese, di un sistema di protezione dei disoccupati vetusto, non equilibrato, prevalentemente rivolto ai lavoratori dell’industria e delle aziende di medie e grandi dimensioni.
È necessario affrontare la materia senza la lente deformante dell’ideologia o basandosi esclusivamente sulle impressioni e sulle esperienze personali, e partire dall’oggettività di un mercato del lavoro che negli ultimi trent’anni si è radicalmente trasformato, perché è mutato il panorama produttivo nel nostro paese, sono emerse nuove professioni e poiché i percorsi di transizione dalla scuola al lavoro sono divenuti particolarmente complessi. Qualsiasi riflessione sugli strumenti contrattuali deve partire da questi elementi, e deve superare un eccessivo difetto di “astrazione” e considerare i contratti di lavoro con una logica sistemica, quali strumenti che devono essere in grado di rispondere alle molteplici esigenze dei lavoratori e delle aziende: dalla transizione dai luoghi di istruzione ai luoghi di lavoro al reinserimento dei lavoratori in età avanzata, dal riconoscimento dei soggetti che non vogliono un rapporto di lavoro univoco alla armonizzazione dei tempi produttivi con i tempi della famiglia.
Le proposte sopra descritte – le proposte Boeri e Nerozzi e la proposta Madia in modo esplicito, le proposte Ichino in modo implicito – propongono, tra l’altro, la profonda revisione di due forme contrattuali – il lavoro a termine e l’apprendistato – le quali da un lato hanno dato un notevole impulso alla crescita del tasso di occupazione (il contratto a termine), dall’altro costituiscono un valido strumento di inserimento nel mondo del lavoro per i giovani (le differenti forme di apprendistato), ossia dei soggetti attualmente e cronicamente più deboli: in particolare le differenti tipologie di apprendistato andrebbero valorizzate e rafforzate e non destrutturate.
L’analisi di Boeri e Garibaldi include nel novero dei lavoratori che vivono una situazione di «apartheid» i «lavoratori part-time che vorrebbero un lavoro full-time»: oltre a non considerare il fatto ineludibile che la “quantità di lavoro” è determinato dalle dinamiche di mercato e non dagli strumenti contrattuali, si tralascia il fatto che il part-time è uno strumento fondamentale che può essere utilizzato – e viene utilizzato – per conciliare le esigenze di vita delle famiglie con i tempi di lavoro.
I contratti di lavoro attualmente esistenti – seppure necessitino di correzioni e miglioramenti – sono dotati degli strumenti per consentire un equilibrato rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, nel rispetto dei principi costituzionali, e sono finalizzati alla facilitazione di una ottimale allocazione delle risorse, ossia a consentire che la complessa e differenziata offerta di lavoro – la quali dipende dalle diverse esigenze dei lavoratori – possa incontrarsi con l’altrettanto complessa e differenziata domanda di lavoro proveniente dalle aziende: le diverse forme contrattuali – il part-time e l’apprendistato innanzitutto – hanno questa finalità, e cancellarle tout court non significherebbe eliminare la precarietà, ma soltanto rendere più rigido il mercato del lavoro, ossia interdire ulteriori possibilità di lavoro.
Inoltre l’apprendistato si configura come un contratto che mantiene la flessibilità nel periodo della formazione, con l’automatica conversione del rapporto a tempo indeterminato o con la possibilità per le parti di recedere al termine dello stesso. A differenza del contratto unico, però, «con l’apprendistato, la optimal firing rule non è solo funzione del tempo (in termini di distanza dalla soglia che aumenta le tutele contro il licenziamento), ma anche dell’investimento in capitale umano specifico e generale fatto dal datore di lavoro sull’apprendista, in termini di formazione on the job e formazione esterna» (P. Nicola Barbieri e F. Fazio, Dibattito su mercati duali e contratto unico. Una analisi teorica, in Bollettino Speciale ADAPT, 2012, n. 2).
Le differenti proposte in campo, più che alla definizione di un contratto unico sembrano finalizzate alla affermazione di un contratto “master”, che dovrebbe essere in grado – nell’intenzione degli autori – di interdire, per via normativa o de facto, il funzionamento delle ulteriori forme contrattuali esistenti, col risultato di irrigidire il mercato del lavoro e inaridire i percorsi di transizione tra scuola e lavoro, senza tuttavia porre rimedio alle condizioni di precarietà diffusa. Anche gli strumenti proposti per i tutela dei lavoratori nel momento dell’uscita dal lavoro – come il contratto di ricollocazione delineato da Ichino – appaiono di difficile attuazione.
D’altra parte, sono gli stessi Boeri e Garibaldi a riconoscere che «dal 1995 a oggi (2008, nda) l’occupazione italiana è cresciuta costantemente: abbiamo assistito a una vera e propria primavera del lavoro. In tredici anni la disoccupazione è quasi dimezzata, passando da più dell’11% a poco più del 6%. E l’occupazione è aumentata, anche nei periodi di bassa crescita o addirittura di recessione. In questo lasso di tempo sono stati creati più di tre milioni di nuovi posti di lavoro» (T. Boeri, P. Garibaldi, cit.).
Boeri fa scaturire la crescita occupazionale degli anni Novanta alla regolarizzazione degli immigrati ed alla moderazione salariale garantita dagli accordi del luglio 1993: ma non è plausibile pensare che le forme contrattuali flessibili abbiano contribuito a consentire l’ingresso nel mercato del lavoro di centinaia di migliaia di individui che altrimenti sarebbero rimasti senza lavoro o sarebbero stati relegati ad una condizione di lavoro nero?
Un ulteriore aspetto presente nell’analisi di Boeri e Garibaldi è l’attribuzione alle diverse forme contrattuali degli effetti della loro “cattiva applicazione”: tali strumenti dovrebbero invece essere valutati sulla base del confronto con i parametri sopra descritti, ed eventualmente – se la valutazione fosse positiva – dovrebbero essere individuati gli interventi necessari ad una loro corretta applicazione, a partire dalla valorizzazione delle metodologie già esistenti. È più utile, ad esempio, cancellare il contratto a progetto o riportarlo alla sua origine, magari garantendo la coerenza tra forma e contenuti e la qualità di questi ultimi attraverso la certificazione?
Allo stesso modo, non può essere richiesto alle diverse tipologie di contratto di divenire “creatrici” di nuova occupazione – se non in conseguenza ed entro i limiti di quanto precedentemente detto, ossia in quanto strumento “facilitatore” dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Gli obiettivi di crescita del tasso di occupazione possono essere perseguiti soltanto affiancando solide politiche attive del lavoro, interventi economici ed efficaci misure volte ad arginare il lavoro sommerso agli strumenti contrattuali, ma a questi ultimi non può essere chiesto di supplire all’assenza o alla carenza dei primi, o addirittura pensare che ci possa essere una rilevante crescita dell’occupazione in quadro di recessione economica.
La tematica dei contratti di lavoro non può essere vista come un “terreno di battaglia” nel quale si scontrano i sindacati e le associazioni datoriali o le differenti posizioni politiche; è necessario altresì definire un percorso nel quale siano coinvolte le parti sociali, in un “dialogo continuo” volto ad individuare e correggere innanzitutto quelle che sono le criticità oggettive esistenti: ossia l’assenza di una forma di sussidio di disoccupazione universale e fortemente finalizzato al reinserimento lavorativo, la necessità di un progressivo superamento della cassa integrazione – perlomeno di quella straordinaria e di quella in deroga – e l’esigenza di una razionalizzazione delle tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questi interventi non possono essere fatti in modo sporadico, ma necessitano – come precedentemente detto – di una logica sistemica, considerando il mercato del lavoro come un “organismo unitario”, per il cui corretto funzionamento sono necessari opportuni pesi e contrappesi.
Gianluca Meloni
Consulente per il mercato del lavoro – Reggio Emilia
@gianluca_meloni