Di primo acchito le indicazioni sulla riforma del lavoro emerse dalle prime bozze del decreto legge di riforma del lavoro aprono non poche perplessità.
Il Governo intende agire sul contratto a termine e sull’apprendistato, ma ne viene fuori una riforma abbastanza confusa, tale da svilire in particolare l’apprendistato.
È noto che il “JobsAct” vorrebbe impostare le sue basi sul contratto unico a tutele crescenti: una sorta di contratto a tempo indeterminato al quale per un primo periodo di tempo (si parla di un triennio) si applichi una sorta di libera recedibilità, mentre superato tale periodo – che finisce per essere una prova lunga, senza bisogno di valutazione negativa – le tutele del lavoratore si consoliderebbero, con piena applicazione anche delle disposizioni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
In parte, il d.l. approvato lo scorso 12 marzo anticipa i contenuti di questa riforma, ma agendo sul contratto di lavoro a tempo determinato.
Infatti, si crea una nuova tipologia di lavoro a termine “spurio”:
– privo di causale per tutta la durata massima possibile del primo avvio, cioè 36 mesi;
– senza pause tra eventuali proroghe o rinnovi, nel caso di contratti inizialmente a più breve termine.
In pratica, il rapporto di lavoro a termine viene parificato, nei suoi presupposti, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, perché il datore non deve sostanzialmente mai evidenziare la ragione economica o produttiva che lo porta ad apporre il termine al contratto. Il quale, dunque, viene privato, ex lege, di una delle ragioni che ne costituiscono la “causa”: cioè la giustificabilità dell’inserimento di un elemento accessorio, il termine. Privando, così, il lavoratore della possibilità di comprendere la ratio della stipulazione del contratto a termine e, dunque, della piena consapevolezza del passo che compie.
È questa la vera e propria “precarizzazione” di cattiva qualità: mettere, cioè, il lavoratore alla sostanziale subordinazione delle scelte del datore di configurare il rapporto di lavoro, senza poter comprenderne le ragioni. Il che priva il lavoratore di poter agire in giudizio per l’eventualità di un impiego a tempo determinato, per fabbisogni oggettivamente duraturi.
Sicuramente si riduce il contenzioso. Ma si crea un elemento di precarietà vera, della quale non si sente il bisogno.
Un minimo cenno alla necessità di giustificazioni “oggettive” vi è per proroghe o rinnovi: ma se non si ha causa giustificativa all’avvio del rapporto, qualsiasi giustificazione per il rinnovo può essere artatamente considerata “oggettiva”.
Di fatto, è una sorta di contratto a tempo indeterminato, però a termine. Una flessibilizzazione assoluta e quasi arbitraria delle strumento.
Che, dunque, potrebbe fagocitare la strada da considerare più corretta verso la buona flessibilità, il graduale inserimento aziendale, la valorizzazione della formazione e dell’investimento sia del datore, sia del lavoratore: l’apprendistato.
Come ha più volte spiegato il professor Michele Tiraboschi, l’apprendistato è di per sé il contratto di inserimento a tutele crescenti, per altro caratterizzato dall’impegno dell’azienda a fornire quella formazione utile anche ad acquisire titoli o qualifiche di studio. Un contratto a tempo indeterminato, a libera re cedibilità una volta concluso il percorso formativo.
Di fronte ad un contratto a termine totalmente privo di giustificazioni, sia per l’avvio, sia per eventuali rinnovi, perché i datori dovrebbero curarsi di affrontare il maggior grado di impegno (specie “morale”) dell’apprendistato?
Eppure, l’apprendistato conserva una chance. Infatti, in totale contraddizione con la liberalizzazione piena del lavoro a termine, il d.l. introduce un limite al numero dei lavori a termine attivabili, pari al 20% dei contratti in essere.
Insomma, mentre si predica la flessibilità, cosa che può rivelarsi utilissima per le esigenze delle aziende, e la si riversa riducendo drasticamente le tutele dei lavoratori, al contempo si ingabbia la strategia lavorativa dell’azienda. Proprio perché si cancella la causalità del termine, si impone, per presunzione di legge, un limite all’impiego del lavoro a termine in via percentuale, uguale per tutti. Passando sopra alla circostanza che ciascuna singola azienda sa se e quando esistano ragioni particolari, produttive, organizzative, tecniche, che richiedano apporti lavorativi temporanei, magari per quantità molto maggiori della soglia “dirigista” imposta dal legislatore. Con tanti saluti alla flessibilità organizzativa dell’azienda.
Tale limite all’utilizzo del lavoro a termine acausale potrebbe, allora, indirettamente spingere i datori ad utilizzare l’apprendistato come strumento di flessibilizzazione del rapporto di lavoro. Il che non sarebbe per nulla un aspetto negativo. Se non fosse che l’apprendistato non è ovviamente idoneo a far fronte ad esigenze temporanee ristrette nel tempo, ma legato ad un progetto di inserimento lavorativo più ampio.
Ma, anche su questo punto, lo schema di d.l. presenta una sorpresa tutt’altro che gradita: preso dalla foga di opportune semplificazioni procedurali, tra le quali positiva è quella di rendere pienamente facoltativa la scelta di effettuare una formazione esclusivamente interna (anche se occorrerebbe verificare l’idoneità dell’azienda e la qualità della formazione, con strumenti di collaborazione e controllo da parte di soggetti pubblici o accreditati), il d.l. rende da obbligatori a facoltativa la forma scritta proprio del progetto formativo!
In questo modo viene totalmente svilita la causa mista del rapporto di apprendistato che si incentra in maniera fondamentale sulla chiara condivisione appunto del percorso formativo, del tempo da dedicare, dei suoi sbocchi ed, ovviamente, degli strumenti utilizzati.
Se il progetto formativo non viene scritto (e, si aggiunga, sarebbe opportuno fosse anche validato da strutture esperte), viene a mancare anche in questo caso ogni appiglio per valutare la qualità della formazione; per non parlare, ovviamente, del controllo sull’effettuazione della formazione stessa. Come sarebbe possibile certificare le competenze acquisite, in assenza della base certa della loro erogazione? Tutto verrebbe, ancora una volta, lasciato in mano ad arbitrarie o, quanto meno, non verificabili scelte del datore.
Inoltre occorrerebbe una valutazione dell’impatto di queste riforme sulla somministrazione. Un rapporto a termine totalmente acausale e molto facile da prorogare e rinnovare potrebbe, infatti, mettere completamente nell’angolo la somministrazione, privata di quel requisito di estrema flessibilità operativa che fin qui l’ha caratterizzata. A meno che non si estenda l’acausalità anche alla somministrazione.
Insomma, la valutazione, anche se adesso del tutto sommaria, sull’azione del Governo è che non sempre l’agire per l’agire, senza meditare approfonditamente su conseguenze ed interrelazioni connesse alle mosse delle pedine, porta a buoni risultati.
Luigi Oliveri
Dirigente Coordinatore Area Servizi alla Persona e alla Comunità
Provincia di Verona
@Rilievoaiace