Gli interventi di riforma del mercato del lavoro preannunciati nel mese di gennaio nel “Jobs Act” di Matteo Renzi hanno iniziato a prendere forma, nello specifico attraverso il decreto-legge n. 32 del 20 marzo 2014, il quale ha modificato la regolazione dell’apprendistato e del contratto a tempo determinato, attraverso delle scelte le quali – seppure probabilmente scaturite da una volontà di “semplificazione” – rischiano di snaturare le finalità stesse di tali tipologie contrattuali.
Nel caso del contratto a termine viene superato il principio della causalità (lasciando al datore di lavoro la possibilità di non specificare le motivazioni che lo portano a fissare un termine al rapporto) e si da massima flessibilità alle proroghe nei 36 mesi (fino a 8, mentre in precedenza era possibile una sola proroga). Per quanto riguarda l’apprendistato, è stato superato il divieto di assumere nuovi apprendisti se non si rispetta la soglia minima del 30% di assunzioni per i rapporti analoghi terminati, e – sopratutto – cade per il datore di lavoro l’obbligo di garantire all’apprendista un secondo livello di formazione.
La tematica contrattuale avrebbe meritato senz’altro una maggiore attenzione e un approccio “sistemico”, volto in particolare a superare le forme di rapporto di lavoro vetuste, inutilizzate o manifestamente distorte e a rafforzare gli strumenti contrattuali che hanno una rilevanza strategica – come l’apprendistato, che dovrebbe divenire il percorso “standard” di ingresso nel mercato del lavoro. La volontà del governo di intervenire in modo rapido ma disarticolato, senza un confronto con le parti sociali e con gli altri stakeholders del mercato del lavoro, e con la mancanza di una visione “complessiva”, rischia di ripetersi anche con riferimento al disegno di legge delega che dovrebbe contenere una vasta riforma dell’organizzazione dei servizi pubblici per l’impiego e delle politiche attive per il lavoro, e una revisione degli ammortizzatori sociali.
Il mercato del lavoro è un meccanismo particolarmente complesso, e qualsiasi intervento sullo stesso dovrebbe tenere conto delle interrelazioni esistenti e caratterizzarsi per una visione di medio – lungo periodo, evitando che la ricerca del consenso contingente o dell’effetto mediatico siano l’obiettivo principale degli interventi di riforma. La storia degli ultimi venti anni è caratterizzata da analisi che hanno individuato in modo completo e preciso i ritardi del mercato del lavoro nel nostro paese – tra queste, principalmente il “Libro Bianco” di Marco Biagi – a cui poi però sono sempre seguite riforme parziali, incomplete o superficiali.
Questo errore rischia di essere ripetuto anche con il “Jobs Act”: in questo senso il decreto-legge n. 34 ne è un chiaro segnale, e le anticipazioni riguardanti la legge delega sembrano proseguire in questa direzione.
In tale senso, l’obiettivo indicato inizialmente nel Jobs Act – l’istituzione di una “Agenzia unica federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali” – sembrerebbe venuto meno, a vantaggio dell’istituzione di un organismo di promozione delle politiche attive per il lavoro, finalizzato quindi ad un coordinamento delle azioni dei servizi pubblici per l’impiego in questo ambito specifico, laddove sarebbe invece utile una piena integrazione tra gli stessi SPI e le agenzie che si occupano di mercato del lavoro, ad iniziare da Italia Lavoro e dall’Istituto per lo Sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (ISFOL). In tale scenario, la stessa erogazione degli ammortizzatori sociali resterebbe in capo all’INPS, mantenendo di conseguenza la distinzione tra la gestione degli stessi, i servizi per l’impiego e la gestione degli interventi formativi finalizzati al reinserimento lavorativo dei disoccupati. È evidente che in tale caso, se le anticipazioni fossero confermate, si tratterebbe di un intervento che non affronta i nodi principali relativi all’organizzazione dei servizi pubblici per il lavoro, ossia:
- · La piena integrazione tra politiche attive del lavoro e politiche passive, ivi compresa la gestione dei sussidi di disoccupazione finalizzati al reinserimento lavorativo.
- · L’esigenza di realizzare strumenti che consentano la definizione di piani di reinserimento lavorativo personalizzati, i quali non possono prescindere dalla capacità dei servizi per l’impiego di valutare le competenze professionali dei lavoratori e di definire percorsi di ricollocazione efficaci, anche attraverso l’individuazione di percorsi di formazione professionale adeguati.
- · La necessità di riqualificare le competenze professionali dei lavoratori dei servizi per l’impiego, al fine del raggiungimento della capacità di gestire in modo efficace (ossia nel rispetto di tempistiche certe e di livelli di prestazione predefiniti) l’intero ciclo di reinserimento lavorativo dei disoccupati. Questo obiettivo può parzialmente essere raggiunto anche attraverso l’inserimento nei SPI del personale specializzato proveniente dalla agenzie regionali, da Italia Lavoro e dall’ISFOL.
- · L’esigenza di definire in modo chiaro il rapporto pubblico – privato: i servizi per l’impiego devono essere in competizione con le agenzie per il lavoro? In tale ipotesi occorre una loro riorganizzazione affinché siano in grado di stare sul mercato. Oppure devono avere un rapporto di collaborazione con le agenzie per il lavoro? In questo caso occorre individuare standard che definiscano strumenti e percorsi condivisi, non lasciando ai singoli centri per l’impiego la scelta delle modalità di relazione con i soggetti privati. In tale contesto potrebbe essere utile riprendere l’idea delle “rete territoriali per il lavoro”, sperimentate negli anni scorsi da diverse province, per farle divenire infrastrutture di servizi “istituzionalizzate”.
L’esigenza è quindi quella di una ridefinizione della mission dei servizi pubblici per l’impiego, e a tale fine non è sufficiente una riorganizzazione o un semplice coordinamento delle politiche attive per il lavoro, magari con programmi nazionali, ambiziosi sulla carta, ma che stentano ad affermarsi nelle innumerevoli ed estremamente differenziate realtà territoriali. Occorre bensì un “ribaltamento organizzativo” finalizzato ad offrire servizi di qualità a lavoratori e aziende, eventualmente anche attraverso la fuoriuscita dei servizi per l’impiego dal circuito della Pubblica amministrazione a favore di una struttura che resti pubblica ma che sia più leggera ed efficace, una vera Agenzia federale per il lavoro.
Un’ultima criticità riguarda la riforma del Titolo V della Costituzione, preannunciata dal Governo, e la volontà dello stesso di superare la legislazione concorrente: a tale proposito sarebbe opportuno– prima della definizione della legge delega – individuare quali sono le competenze di carattere esclusivo delle Regioni e quali quelle dello Stato in materia di lavoro e formazione.
Gianluca Meloni
Consulente per il mercato del lavoro – Reggio Emilia
@gianluca_meloni