Riforma statali, così mobilità e stretta sui premi

Nuove regole per la mobilità e i premi nella riforma della pubblica amministrazione. I dipendenti pubblici potranno essere trasferiti da una sede a un’altra, e anche da un comparto (per esempio una Provincia) a un altro (per esempio un Tribunale) senza il loro assenso, ma ci sarà un limite di chilometri dalla residenza oltre il quale non si potrà andare. Le gratifiche dei dirigenti saranno legate all’andamento del Pil. Intanto l’Ocse elogia l’Italia: nel G7 è l’unica ad accelerare. La produzione cresce dell’1,6% su base annua.

Limite chilometrico e stesso stipendio? Per i dirigenti bonus legati alla crescita per i dipendenti che saranno trasferiti economica, il Pil fissato all’1,3 per cento

 

Il piano

 

Quaranta chilometri. O forse cinquanta o trenta. Il limite nero su bianco ancora non è stato ancora messo, ma il principio sì. I dipendenti pubblici, per evitare il licenziamento, potranno essere trasferiti da una sede ad un’altra, e anche da un comparto (per esempio una provincia) ad un altro (per esempio un tribunale) senza il loro assenso, ma ci sarà un limite di chilometri dalla residenza oltre il quale non si potrà andare. E nemmeno gli stipendi potranno essere tagliati per tutti coloro che saranno trasferiti «d’ufficio».

 

Sono questi i due paletti che renderanno più «digeribile» la mobilità obbligatoria per gli statali, il meccanismo che il governo ha intenzione di mettere in campo per «assicurare una migliore e più efficiente gestione delle risorse umane». Un primo sasso lanciato dal governo in uno stagno immobile, se è vero, come è stato stimato, che in media soltanto un, impiegato su mille ha cambiato amministrazione e solo uno su cento si è trasferito da un ufficio all’altro.

 

La mobilità, sia quella volontaria che quella obbligatoria, insomma, fino ad oggi non ha mai funzionato. Proprio da qui parte la sfida del governo. Non a caso la modifica di questo istituto è stata messa al «punto 2» della riforma della pubblica amministrazione. Per quella volontaria sarà abrogato il nulla osta da parte dell’ufficio di provenienza del dipendente che chiede di essere trasferito. Negli ultimi mesi, del resto, è capitato che molti dipendenti delle Province, nelle more dell’abolizione degli enti, facessero richiesta per essere trasferiti presso i tribunali dove invece mancano i cancellieri. Gran parte delle domande non avrebbero ricevuto il nulla osta dell’amministrazione restando lettera morta. Sempre in tema di mobilità, poi, una delle norme che dovrebbe essere inserita nel provvedimento, prevede che chi è distaccato dalla sua amministrazione da alcuni anni presso un altro ente venga trasferito definitivamente nell’amministrazione presso la quale ha svolto nell’ultimo periodo la sua attività.

 

Il nodo delle risorse

 

Ma se sulla mobilità molti dei tasselli sembrano andare al loro posto, altri punti della riforma paiono ancora incerti. Soprattutto per quanto riguarda risparmi e risorse previste dai provvedimenti allo studio. Il commissario alla spending review, Carlo Cottarellí, aveva messo in conto un contributo di 3 miliardi di euro alla sua spendíng review grazie ad un piano di 85 mila esuberi statali. Matteo Renzi e il Ministro Marianna Madia hanno cestinato questa proposta, ma hanno comunque dato garanzie che dalla riforma della pubblica amministrazione arriveranno i risparmi attesi se non anche maggiori risorse.

 

Risorse che, a questo punto, servono al governo come il pane, visto che nell’incontro di domani previsto con i sindacati proprio in vista dell’approvazione della riforma della Pa, la Madìa vorrebbe aprire un ragionamento sullo sblocco del contratto del pubblico impiego le cui risorse andrebbero trovate con la prossima legge di stabilità. Non è un’operazione semplice. Il costo per le casse pubbliche di un rinnovo economico del contratto degli statali, fermo ormai da quattro anni, costerebbe circa 4,5 miliardi di euro.

 

Il problema è anche un altro. Le misure che avrebbero permesso i risparmi più consistenti per il pubblico impiego, come l’esonero dal servizio (ossia la possibilità di lasciare a casa i dipendenti pagando il 65 per cento della retribuzione) e i prepensionamenti, per il momento sono scomparsi dal menù della riforma.

 

Anche la «staffetta generazionale», lo svecchiamento dei ranghi, avverrà per altre strade. A cominciare dall’abrogazione del trattenimento in servizio, la norma che consente ai dipendenti dello Stato di rimanere al lavoro per altri due anni dopo che sono stati raggiunti i requisiti della pensione. Questo, secondo i calcoli più aggiornati, dovrebbe liberare tra i 10 e i 13 mila posti in un triennio da destinare all’assunzione di giovani. Gli altri ingressi saranno legati, invece, ad una sorta di «patto generazionale», un sistema simile a quello che qualche tempo fa aveva ipotizzato, anche per il settore privato, il governo Letta. Per chi è vicino alla pensione sarebbe incentivata la trasformazione del contratto di lavoro in part time. Questo permetterebbe di liberare risorse finanziarie per nuove assunzioni, magari anche queste inizialmente a tempo parziale, in modo da utilizzare una sorta di moltiplicatore nelle assunzioni.

 

Per oliare questo meccanismo sarà necessario agire anche sulle regole del turn over. Oggi vige un blocco che permette di assumere solo due nuovi dipendenti ogni dieci che vanno in pensione. Il calcolo, per consentire nuovi ingressi in misura maggiore, non sarà più fatto sul conteggio delle «teste», ma in base alle risorse finanziarie. Saranno insomma queste ultime ad essere fisse, non il numero di dipendenti per amministrazione. Per evitare di essere messi in esubero, per i dipendenti pubblici, non ci sarà soltanto la mobilità, volontaria o obbligatoria che sia, o la scelta del part time. Ci sarà anche un altro strumento in campo, quello del demansionamento. Agli statali considerati in eccesso nelle amministrazioni, verrà data la possibilità di svolgere un altro ruolo, inferiore a quello svolto fino al giorno prima, ma con la certezza di conservare il posto di lavoro. Questo «istituto» dovrà tuttavia essere inserito nel contratto di lavoro quando si aprirà il tavolo per il suo rinnovo.

 

La nuova dirigenza

 

C’è poi il capitolo della dirigenza. Anche questo decisamente spinoso e che già ha fatto salire sulle barricate molti dei sindacati di categoria. Molte delle «novità» sono già note. Ci sarà un ruolo unico e dunque niente più differenziazione in fasce, le carriere saranno legate ai risultati, così come anche i premi, e tutti i dirigenti della Pubblica amministrazione saranno licenziabili.

 

Quello che non era noto fino ad oggi, e nemmeno scontato, è che tutte queste regole si applicheranno non soltanto ai nuovi assunti, ma anche a coloro che già sono nei ranghi della dirigenza. Gli incarichi in essere al momento dell’entrata in vigore della legge potranno comunque proseguire fino alla scadenza naturale. I successivi incarichi verranno assegnati secondo il meccanismo degli «interpelli» che saranno aperti a tutti i dirigenti iscritti nel ruolo unico della Pubblica amministrazione. Si potrà passare, insomma, dall’Inps all’Agenzia delle Entrate, dalla Presidenza del Consiglio al ministero della Sanità, e così via. Tutto questo meccanismo, almeno nelle intenzioni del governo, dovrebbe servire anche a sbloccare i ruoli apicali, quelli attualmente appannaggio dei dirigenti di prima fascia.

 

Ci sarà anche una norma ad hoc per i magistrati che hanno incarichi di diretta collaborazione. Dovranno essere messi fuori ruolo e non potranno più chiedere l’aspettativa. Un escamotage, quest’ultimo, utilizzato alcune vote per eludere le norme della legge Severino che prevedono che dopo 10 anni di fuori ruolo un magistrato non può più rientrare nei ranghi. Sempre per i magistrati, poi, resta sul tappeto l’ipotesi di abbassare l’età di pensionamento dai 75 anni ai 70 anni.

 

 

Ma la vera novità per i dirigenti pubblici è quella che riguarda i premi. Come promesso da Renzi e Madia, la retribuzione di risultato sarà legata anche all’andamento dell’economia. Nelle prime bozze della riforma che iniziano a circolare, la crescita del Pil del 2014 per erogare il premio, sarebbe stata fissata all’1,3 per cento. Un obiettivo ambizioso. Molto ambizioso, considerando che lo stesso governo nei suoi documenti ufficiali stima un Pil in crescita per quest’anno di solo lo 0,8 per cento, mentre i principali osservatori internazionali sono ancora più cauti. Se l’obiettivo fosse confermato è difficile pensare che i premi possano essere assegnati.

 

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Riforma statali, così mobilità e stretta sui premi
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