Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Il Rapporto sulle comunicazioni obbligatorie 2014: quando le statistiche danno una mano alle politiche del lavoro

Un giuslavorista della generazione dei “Maestri” era solito a criticare l’uso delle statistiche alla stregua di come gli ubriachi si avvalgono dei lampioni collocati sul loro incerto cammino verso casa: per appoggiarvisi barcollanti e non per “fare luce”. Nel nostro caso, invece, siamo convinti che i dati del Rapporto annuale sulla comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (pubblicato, peraltro, sull’ultimo numero del Bollettino ADAPT) siano molto utili per valutare l’opportunità di talune misure adottate in materia di lavoro e per ridimensionare il clima di emergenza con cui ne vengono giustificate altre, di carattere previdenziale.

 

Il primo aspetto che intendiamo affrontare riguarda l’opportunità (o meno) della legge Poletti e delle modifiche apportante alla disciplina del lavoro a termine e alla normativa sull’apprendistato.

 

In partenza, sarà bene ricordare che le comunicazioni obbligatorie sono atti che i datori di lavoro, pubblici e privati, sono vincolati a compiere (con relativa trasmissione ai servizi competenti) in caso di attivazione, proroga, trasformazione o cessazione di rapporti di lavoro subordinato, associato, di tirocini o di altre esperienze professionali previste dalla normativa vigente (art. 4-bis del d.lgs. n. 181/2000 e successive modifiche). Il Rapporto riguarda il triennio 2011-2013: dalle caratteristiche, dall’ampiezza e dalla qualità dei dati riportati (ne considereremo una parte invero modesta) emerge con chiarezza che il mercato del lavoro, anche durante una crisi economica tra le più lunghe e profonde degli ultimi decenni, non è mai una “foresta pietrificata”, ma un corpo vivo e vitale, ancorché in sofferenza.

 

Nel 2011 sono stati attivati 10,5 milioni di rapporti e ne sono cessati 10,2 milioni; nel 2012 i rapporti attivati sono stati 10,2 milioni, quelli cessati 10,3 milioni; nel 2013 si è trattato rispettivamente di 9,6 milioni contro 9,8 milioni. Va altresì precisato che, solitamente, il numero dei rapporti non coincide con quello dei soggetti attivati e cessati, dal momento che ciascuna di queste operazioni può essere ripetuta più volte nell’arco del medesimo anno. Lo stesso ragionamento può riguardare il numero dei rapporti attivati e cessati. La frequenza degli avviamenti nel periodo considerato può rappresentare un indicatore di frammentarietà dei rapporti di lavoro per una determinata categoria professionale. Ma anche allo scopo di svolgere altre valutazioni i dati delle comunicazioni obbligatorie sono comunque indicativi e, in ogni caso, permettono di tenere sotto controllo le dinamiche del mercato del lavoro.

 

Tanto per fare un esempio, nel 2011 i rapporti di lavoro registrati hanno interessato poco più di 6 milioni di lavoratori (su oltre 10 milioni di rapporti attivati) con un numero medio di contratti pro capite pari a 1,72; nel 2012 il numero medio è salito a 1,75; mentre nel 2013, essendo i lavoratori interessati 5,4 milioni, il numero medio è salito a 1,78. Quanto alla tipologia contrattuale adottata è il contratto a termine quella più usata (nel triennio l’utilizzo di tale istituto sale dal 63% al 68% del totale delle attivazioni), mentre scendono il contratto a tempo indeterminato dal 17,6% al 16,4%, le collaborazioni dall’8,5% al 7%, l’apprendistato dal 2,8% al 2,5%.

 

Il Rapporto poi mette in evidenza un aspetto dei rapporti a tempo determinato che era già emerso nel monitoraggio della legge n. 92/2012: la brevissima durata di una quota rilevante di tali contratti. Infatti, il 46,3% dei contratti a termine cessati  nel 2013 hanno avuto una durata fino ad un mese (quasi il 20% di un solo giorno, l’8% di 2-3 giorni, i rimanenti tra 4 e 30 giorni). Non vi è un’unica  spiegazione per  tale fenomeno:  innanzi tutto, bisogna ricordare che l’aver introdotto l’acausalità fino a 12 mesi nella legge n. 92 ha incoraggiato i datori di lavoro ad avvalersi dei contratti a tempo determinato i quali, così, hanno finito per sovrapporsi “con altre forme contrattuali più adatte a rapporti di lavoro di brevissima durata”.

 

In sostanza, il contratto a termine, liberato dal vincolo del “causalone”, è sembrato meno a rischio di contenzioso rispetto ad altre forme, più precarie, ma divenute sanzionabili a seguito delle modifiche dei requisiti disposte dalla legge Fornero. Poi – come fa notare il Rapporto – sulla netta prevalenza dei contratti a termine di breve durata (sono meno di 2 milioni, su 6,2 milioni cessati nel 2013, i contratti da 4 mesi a un anno; appena 155mila quelli cessati, trascorso un anno) ha inciso anche l’incertezza della situazione economica che scoraggia, nei datori di lavoro, l’assunzione di impegni anche limitati nel tempo. Ecco perché sono positive le modifiche introdotte nella legge Poletti, non solo per il fatto di aver liberalizzato in contratto a termine per tutti  i  36 mesi della durata consentita, ma soprattutto per aver introdotto la possibilità di avvalersi di 5 proroghe in costanza di rapporto, dando così modo di “navigare a vista” in relazione agli andamenti del processo produttivo.

 

I dati molto modesti riguardanti l’apprendistato confermano quanto sia stato opportuno rivisitare l’istituto, semplificandolo, nella legge Poletti. Infine, mentre già si prepara il sesto intervento di salvaguardia a favore dei c.d. esodati (il testo di un progetto di legge multipartisan, predisposto dalla Commissione lavoro della Camera, arriverà in Aula il 30 giugno), il Rapporto sulle comunicazioni obbligatorie rende testimonianza della inconsistenza di una convinzione diffusa (quasi un luogo comune) per cui quanti perdono il lavoro da anziani (intorno ai 60 anni di età), non sono in grado di trovarne un altro. Risulta, invece, che i rapporti attivati per i lavoratori con età di 55 anni ed oltre, sono stati 927 mila nel 2012 (riguardanti 563mila lavoratori) e 912 mila nel 2013 (relativi a 539 mila lavoratori).

 

Si tratta di dati che, pur non ignorando la complessità di realizzare politiche attive per il placement di lavoratori anziani, danno conto di un ventaglio di possibilità ben più ampio ed articolato rispetto al ricorso alle solite norme di deroga sull’età pensionabile. Diciamoci la verità. Da Matteo Renzi ci aspettavamo ben più di un altro contentino alle lobby degli esodati. Avremmo gradito un bel: “Andate a lavorare!”.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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