Ma quanta enfasi (ingiustificata) sull’allarme “conflitto sociale”
Emergenza scioperi? Dipende. Nel 2013 il numero di scioperi proclamati è stato pari a 2.339, nove in più dell’anno precedente, secondo quanto dichiarato dal presidente dell’Autorità di garanzia, Roberto Alesse, che lo ha definito “un numero certamente elevato”. Sempre per il Garante, la “scioperosità” degli italiani, in particolare nei servizi pubblici, è indice di “tensione sociale oltre un livello di allarme”.
I numeri, però, come spesso accade – e accade pure quando i media esagerano nel parlare di una disoccupazione “straordinariamente “elevata” (piuttosto “ovviamente elevata” e che comunque a maggio, al 12,5 per cento, oscilla al di sotto del record storico del 12,7 di gennaio e febbraio) – giustificano le preoccupazioni fino a un certo punto. Se infatti è vero che seppure per poche unità il 2013 è stato un anno record, le giornate di effettiva astensione dal lavoro sono state “solo” 666: nel 2012 erano state invece 1.375. Perfino negli anni pre-crisi la situazione appariva più critica: 856 nel 2008 (anno segnato dalla vicenda Alitalia), 731 nel 2007.
Il dato, insomma, va letto in controluce, e suggerisce due cose. La prima è che, l’ha rilevato lo stesso Alesse, lo sciopero è ormai un’arma spuntata: viene minacciato con crescente disinvoltura, ma ciò non corrisponde necessariamente all’effettiva disponibilità dei lavoratori a perdere salario causando disagi ai cittadini. La seconda, più prosaica, è che il delta tra gli scioperi proclamati e quelli effettuati – e l’enfasi con cui viene comunicato lo “sciopero percepito” – fornisce ad Alesse l’opportunità per rivendicare l’utilità dell’organismo da lui presieduto (in un momento in cui le autorità di regolazione sono obiettivo della razionalizzazione renziana).
Altro aspetto importante riguarda le ragioni per cui i sindacati incrociano le braccia: in particolare nel pubblico, il tema è sempre meno la dialettica contrattuale e sempre più la protesta politica contro i tagli e la conseguente riorganizzazione (o l’eventuale privatizzazione) delle aziende del trasporto pubblico o dei rifiuti, che non di rado si distinguono per la condizione dissestata dei loro bilanci. Se guardati con attenzione i numeri non descrivono tanto una conflittualità patologica, quanto le resistenze fisiologiche a un cambiamento necessario e ineluttabile. Il bicchiere è insomma mezzo vuoto, come dice Alesse, ma forse è anche mezzo pieno.