Contrordine compagni! Il contratto (già unico) a tempo indeterminato a tutele crescenti (per non dover ripetere a iosa una formula lunga come una filastrocca d’ora in poi lo chiameremo #contrattocambiaverso, alla maniera della comunicazione renziana) non è più un’elaborata intuizione delle “teste fini” della sinistra riformista (quelle che, in materia di nuovo welfare, sono andate a scuola da Gosta Esping-Andersen e da Maurizio Ferrera), bensì uno strumento subdolo della reazione sacconiana (rieccolo Maurizio Sacconi) perennemente e perfidamente in agguato.
La cronaca – con una meticolosità certosina – è raccontata dal Senatore Pietro Ichino in una sua newsletter a cui facciamo rinvio (http://www.pietroichino.it/?p=31521), dove è contenuto un vero e proprio diario del dibattito in Senato. All’improvviso, in Commissione Lavoro, durante l’esame del ddl delega (il pezzo strutturale del Jobs Act), i componenti del Pd – pallidi e coi capelli diritti come se avessero incrociato un fantasma nei meandri di Palazzo Madama – si sono dissociati da un emendamento (che teneva insieme il Testo unico semplificato e la formulazione del nuovo contratto) a prima firma proprio di Ichino.
La levata di scudi ha coinvolto anche il Governo, nelle persone, dapprima, del sottosegretario Teresa Bellanova (una veterana nel mettersi a “guardia del bidone”); poi, dello stesso Ministro Giuliano Poletti. Sembra che ad un certo punto i senatori del Pd si siano accorti di un aspetto – la revisione delle tutele contro il licenziamento ingiustificato – che è sempre stato presente, fin da quando, qualche “anima bella” mise in circolazione la proposta che, strada facendo, si è qualificata come contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (#contrattocambiaverso).
Per anni, di questa forma contrattuale si sono avuti diversi copyright, ciascuno con tanto di brevetto di qualche intellettuale (economista e/o giurista) di area (Tito Boeri, Pietro Garibaldi, lo stesso Pietro Ichino), il cui elaborato, nella trascorsa legislatura fornì materia per la presentazione di disegni di legge da parte di deputati democrat un po’ più spregiudicati della media. Per un lungo periodo si ritenne pure che questo contratto di nuovo conio potesse fregiarsi del requisito dell’unicità, sbaragliando sul campo tutte quelle forme d’accesso “spurie” rivolte a garantire flessibilità in entrata allo scopo prevalente di potersene avvalere anche all’atto della risoluzione del rapporto (aggirando cioè le “forche caudine” dell’art. 18).
Poi, i protagonisti del progetto si resero ben presto conto che, per quanto reso flessibile e adattabile, non poteva esservi un “unico” contratto in grado di regolare adeguatamente ogni possibile esigenza scaturita nell’incontro tra domanda e offerta sul mercato del lavoro. Le forme contrattuali “atipiche” – puntualmente disciplinate dalla Legge Biagi che proprio per aver fatto ordine nella materia era tutt’altro che una legge permissiva – non sono, infatti, il frutto di una congiura ai danni della classe lavoratrice, bensì, se correttamente applicate, soluzioni congrue e pertinenti per disciplinare situazioni lavorative specifiche che, in assenza di regole adatte, finirebbero per restare nel lavoro sommerso.
Tornando al punto: nei confronti di quale evento venne pensato ed indicato un percorso di “tutele crescenti”, tale da rendere più sostenibile di adesso, per le imprese, il ricorso ad un’assunzione a tempo indeterminato? La risposta è sempre stata e rimane una sola: si può avere minore flessibilità in entrata se c’è minore rigidità in uscita; quindi, l’articolazione delle tutele, implicita nel nuovo contratto, non può che riguardare la disciplina del licenziamento individuale. Del resto basterebbe scorrere il modello, più o meno simile in tutti, dei progetti che assumevano l’ipotesi del #contrattocambiaverso. All’inizio era previsto un periodo di prova più lungo, poi il rapporto di lavoro si infilava per un certo numero di anni sotto l’ombrello di una protezione solo risarcitoria contro il licenziamento illegittimo, per approdare poi (Giungemmo, alfine! O sacro araldo squilla!) nel campo della tutela reale e della reintegra giudiziaria (hic manebimus optime !”).
In sostanza, era implicita, in questa tipologia contrattuale, una revisione dell’articolo 18 dello Statuto. I suoi proponenti non lo avevano mai negato. Con un cenno di sfida annunciavano al mondo: “Voi, liberisti d’accatto, sostenete che l’articolo 18 è un problema? Bene noi lo risolviamo salvaguardando la capra dell’impresa e i cavoli del lavoratore”. Nei salotti non si parlava di altro: “Che cosa pensa, signora, del contratto unico a tutele crescenti?’’. “Ah! Io adoro Ichino: la sua proposta è così ricca. Pensi contiene persino un impegno, per i datori, al placement dei licenziati!’’. “A me piace di più il progetto Boeri-Garibaldi”. Ma questo “salto nel nuovo” non era ancora maturo (nella sinistra trinariciuta e nei sindacati). Così la legge Fornero (benché il Ministro fosse una fan del progetto Ichino) prese un’altra e più complicata strada, riscrivendo di sana pianta la disciplina del licenziamento individuale (gli interpreti sono ancora al lavoro). Si poteva pensare, allora, che il problema del #contrattocambiaverso fosse, almeno per il momento, accantonato. Invece no. Arriva Matteo Renzi e lo infila nel Jobs Act. E per mesi, mentre viene convertito con qualche mal di pancia, il Decreto Poletti riguardante la liberalizzazione del lavoro a termine (una mossa che metterà totalmente fuori mercato le assunzioni a tempo indeterminato), tutti nel Governo e nel Pd annunciano che la loro linea vera è un’altra: quel #contrattocambiaverso contenuto nel disegno di legge delega. Poi, all’improvviso, scoppia un fuggi fuggi generale al grido: “Giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto’’.
Anche nella follia occorre sempre un briciolo di logica. Quali sarebbero, secondo i senatori democrat in via di pentimento, le tutele che dovrebbero “crescere” col trascorrere dell’anzianità di servizio? Il diritto alla retribuzione oppure quello alla salute e alla sicurezza del lavoratore? Suvvia, non scherziamo. Si osservi piuttosto la realtà. È certamente prematuro accusare di fallimento il “pacchetto Giovannini” quando manca praticamente un anno alla scadenza del programma riguardante l’assunzione a tempo indeterminato di almeno 100 mila giovani, grazie ad una robusta politica di incentivi a favore delle imprese disponibili (fino a 650 euro mensili). A conti fatti, però, il risultato di 22 mila assunzioni è sicuramente modesto, tanto da far temere che, se non ci sarà una ripresa economica abbastanza sostenuta, l’obiettivo finale non sarà conseguito, anche perché, come già ricordato, la recente Legge Poletti ha reso molto più conveniente e appetibile l’utilizzo del contratto a termine, liberandolo dal vincolo della “causalità’’ per tutta la sua durata e sottraendolo così al rischio di contenzioso giudiziario. Si dimostra, ancora una volta, quanto fosse corretta la considerazione di Marco Biagi: nessun incentivo economico – ancorché generoso – è in grado di compensare un disincentivo normativo.
Il contratto a termine, infatti, costa di più alle imprese di quello a tempo indeterminato; nel caso del “pacchetto Giovannini”, è previsto persino il vantaggio, per 18 mesi, di un bonus, ragguardevole, pari ad almeno un terzo della retribuzione da corrispondere al giovane neo-assunto. Ma le aziende sono restie ad impegnarsi in un rapporto stabile benché siano incentivate a farlo (lo si vede anche nello stentato decollo dell’apprendistato). Sarà difficile escludere la problematica del licenziamento dall’oggetto misterioso (#contrattocambiaverso) all’esame del Senato. Altrimenti è meglio lasciar perdere. E consentire ai morti di seppellire i morti.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus