La determinabilità minima della prestazione nel contratto a progetto: una questione aperta

Tra i diversi contratti di lavoro interessati dalle modifiche normative intervenute negli ultimi anni, senza dubbio il contratto a progetto costituisce quello su cui lo spirito riformatore, a volte integralmente modificativo, in altre occasioni semplicemente correttivo, ha potuto esprimersi al meglio. In effetti, la tipologia contrattuale in parola ha costituito l’occasione, per le differenti impostazioni culturali ispiratrici delle maggioranze parlamentari di sostegno ai vari Governi in carica, di definire un nuovo assetto regolatore del mercato del lavoro, nella convinzione di risolvere la perdurante crisi economica del nostro Paese con una modifica della disciplina lavoristica. Ne è emerso un impianto legislativo di settore pullulante di provvedimenti succedutisi nel tempo a mo’ di scosse di assestamento, foriere, però, di un risultato non sempre brillante per chiarezza espositiva e facilità applicativa.

 

Nel ventaglio di questioni relative alla disciplina del contratto a progetto che le novelle, in luogo di approntare soluzioni, hanno creato, deve essere segnalata quella concernente il delicato rapporto tra il coordinamento dell’attività del collaboratore, i criteri di determinazione del corrispettivo al medesimo spettante e la recedibilità del contratto per sua inidoneità professionale.

L’esposto intreccio, lungi dal costituire una problematica degna interesse a meri fini speculativi, trova, nella realtà, significative conseguenze applicative, meritando quindi qualche riflessione.

 

Sin dall’iniziale previsione nel 2003, il contratto a progetto si è caratterizzato per il coordinamento dell’attività del collaboratore, inteso quale collegamento funzionale fra questa e la struttura organizzativa del committente, e costituente, per certi aspetti, la cifra caratterizzante tale tipologia negoziale, volta a valorizzare l’autonomia del collaboratore nella gestione della prestazione dedotta nel contratto in virtù del risultato da raggiungere. La riforma del 2012, nel riscrivere la disciplina in parola, ha conservato l’elemento del coordinamento, concentrandosi, fra le altre cose, sui criteri di determinazione del corrispettivo e sulla disciplina del recesso ad opera del committente, da un lato lasciando ancorato il corrispettivo alla quantità e qualità del lavoro eseguito e prevedendo al contempo la sua conformità ai minimi previsti per ciascun settore di attività, e dall’altro introducendo il concetto di inidoneità professionale del collaboratore (non definita però adeguatamente dal legislatore ed, in mancanza di diversi riferimenti normativi, da ritenersi assimilabile allo scarso rendimento previsto per il lavoro subordinato, cui peraltro la novella del 2012 ha voluto ulteriormente avvicinare le collaborazioni a progetto nel tentativo di sottrarle ad un uso elusivo della normativa).

 

Sinteticamente riportati gli aspetti qualificanti il contratto a progetto che qui interessano, è opportuno interrogarsi sull’an ed il quomodo dell’inserimento nel contratto in parola di una clausola che oneri il collaboratore ad eseguire un minimo quantitativamente verificabile della prestazione dedotta nel contratto. Volendo chiarire la questione con un esempio, è possibile pensare ad una pattuizione che preveda per il collaboratore, magari con frequenza periodica predefinita, lo svolgimento di una determinata prestazione, pur funzionale al raggiungimento del risultato, tuttavia stabilita dal committente piuttosto che autonomamente posta in essere dal collaboratore per realizzare il compito assegnatogli?

 

Orbene, se appare indubbio che una clausola di questo tipo possa validamente costituire un parametro oggettivo sia per determinare il corrispettivo del collaboratore, sia per apprezzarne l’eventuale inidoneità professionale legittimante il recesso anticipato del committente, va parimenti evidenziato che così operando potrebbe a ben vedere configurarsi una sorta di “risultato nel risultato” cui il collaboratore sarebbe obbligato, dovendo il medesimo realizzare l’obiettivo richiestogli ma anche assicurare la prestazione minima contrattualmente prevista.

Ne potrebbe venire conseguentemente incrinato il principio dell’autonomia del collaboratore nella scelta delle modalità operative per la realizzazione del risultato, aprendo il varco a possibili contestazioni sulla natura subordinata del rapporto in essere con il committente. Ciò, essendo l’eterodeterminazione notoriamente considerata dalla giurisprudenza un elemento sintomatico della non genuinità del contratto a progetto.

Il punto, peraltro, è così sensibile che due anni or sono il legislatore ha introdotto, all’art. 69, comma 2, d. lgs. n. 276/2003, una presunzione relativa di subordinazione, espressamente prevedendo la conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del contratto a progetto in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella posta in essere dai dipendenti del committente, salvo prova contraria a carico di quest’ultimo ovvero che si tratti di prestazioni di elevata professionalità.

 

In attesa di eventuali ed ulteriori precisazioni normative o ministeriali sul punto, ovvero di pronunce della magistratura che stabiliscano i contorni di un tuttora non risolto rapporto tra istituti del contratto a progetto – coordinamento del collaboratore, determinazione del corrispettivo e recesso del committente, appunto – la certificazione del contratto contenente pattuizioni di tal sorta avrebbe il vantaggio di definirle con chiarezza, riuscendo altresì ad agevolare una genuina comprensione, in capo al collaboratore, della tipologia di prestazioni cui si è obbligato.

 

Giovanna Carosielli

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

 @GiovCarosielli

 

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Si segnala che le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.

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