Giovedì prossimo, riaprendo i lavori della XI Commissione sul Jobs Act n. 2 (AS.1428), il presidente e relatore Maurizio Sacconi potrebbe rivolgere ai colleghi la seguente domanda: “Dove eravamo rimasti?”. Durante la pausa estiva, infatti, non vi sono state novità che incoraggino e lascino intravvedere la possibilità di un accordo all’interno della maggioranza sul nodo cruciale dell’articolo 4. Anzi, si è assistito al solito “gioco delle tre carte” a cui ci ha abituati Matteo “Sancho Panza” Renzi, il quale si è lanciato nella promessa spericolata (lo ha ribadito anche nella chilometrica intervista al Sole 24 Ore) di riscrivere persino la legge n. 300/1970, mentre i gruppi parlamentari del Pd prendevano in ostaggio il Ministro Giuliano Poletti, conferendogli un mandato molto netto: l’articolo 18 (come novellato dalla legge Fornero) non si tocca e dello Statuto dei Lavoratori si rivedono soltanto quegli articoli (i controlli a distanza, l’assegnazione delle mansioni e quant’altro) il cui contenuto è ormai superato rispetto all’attuale realtà tecnologica e produttiva. Insomma, il trionfo della linea di Cesare Damiano il quale, dalla presidenza della Commissione Lavoro di Montecitorio, fa sapere che a lui del testo che uscirà dal Senato “non gliene può fregar di meno”, dal momento che è in grado di schierare la Commissione (e l’Aula) sulle sue posizioni.
In sostanza, nella linea ufficiale del Pd (assunta anche dal ministro titolare), si resterebbe ancorati al testo iniziale del disegno di legge delega, dove si parlava, alla lettera b) dell’articolo 4, della “redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate secondo quanto indicato alla lettera a) (dove era prevista – ndr – una “potatura”), che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”.
Che cosa può dire un interprete corretto a proposito di una norma di delega siffatta? Non solo che siamo lontani anni luce dalla ideologia del “contratto unico”, ma che viene prefigurato – eventualmente e in via sperimentale – un nuovo rapporto di lavoro (sì, uno in più) non necessariamente a tempo indeterminato, finalizzato all’inserimento (quindi rivolto a promuovere occupabilità per i soggetti più deboli) e protetto da tutele crescenti (di cui non si chiarisce la tipologia). Che da questa forma aggiuntiva si possa ricavare il profilo del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è tutto da dimostrare, se ha ancora un senso l’articolo 76 Cost. sulla delega di funzione legislativa al governo (con la determinazione di principi, criteri direttivi e oggetti definiti). Su tale impostazione, è calato l’emendamento delle forze “centriste” a prima firma del sen. Pietro Ichino, il quale ha pensato bene di cogliere in castagna i colleghi trinariciuti riproponendo un testo (allora programmatico) inserito nel decreto Poletti (poi convertito come legge n.78/2014).
Per facilità di consultazione riportiamo di seguito il testo dell’emendamento all’articolo 4.
“1. Il Governo è delegato ad adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge un decreto legislativo contenente un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente, senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro, secondo i criteri che seguono”.
Essendo molto laschi i criteri e per di più riferiti ai confini del testo unico semplificato, è il caso di concentrarsi sul “cuore” dell’emendamento Ichino. Si accenna con chiarezza ad un “contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente” (scompaiono l’eventualità e la finalità di inserimento) che dovrebbe essere regolato nel testo unico semplificato, mentre non vi sarebbe alterazione delle tipologie contrattuali vigenti (anziché la loro semplificazione). Bene. Ma è tutto da dimostrare che queste formulazioni generiche ed esoteriche siano in grado di reggere il dibattito che si è sviluppato nelle ultime settimane.
Dove sta scritto che si allunga a dismisura il periodo di prova, ma guai a toccare la reintegra quando il rapporto viene stabilizzato (la tesi del Pd) o che la tutela contro il licenziamento illegittimo diventa, di norma, obbligatoria, salvo i casi di discriminazione o di violazione dei diritti fondamentali (la tesi di Ichino, condivisa da Sacconi)? Si dirà che la materia sarà affrontata in sede di decretazione legislativa attuativa. Ma siamo impazziti ?! Se qualcuno pensa che sarà possibile riscrivere il diritto del lavoro, compresa la materia delicata della disciplina del licenziamento individuale, sulla base di una delega sibillina è meglio che cambi mestiere. Ecco perché, la battaglia in atto al Senato è una banale ripetizione della batricomiomachia (“la guerra dei topi e delle rane” della satira greca).
A seconda di chi vincerà, potranno raccontare o di aver difeso l’articolo 18 ancora una volta minacciato dalla reazione perennemente in agguato oppure di aver abbattuto, con il superamento e la riforma di quell’articolo, l’ultimo Muro di Berlino ancora in piedi in Europa. E saremo giudicati dai mercati, dagli osservatori internazionali e dalla Bce sulla base della formulazione, comunque ambigua, che il Senato (e la Camera ?) riuscirà ad approvare. Ma a Bruxelles e a Francoforte li sanno leggere i testi di legge? O forse aspettano che divengano “traducibili in inglese” per poterli consultare?
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus