“La civiltà del diciannovesimo secolo è crollata”. Con queste parole si apriva l’opera maggiore di Karl Polanyi, l’autore che ispira il titolo di questo blog. Basterebbe sostituire diciannovesimo con ventesimo per iniziare a descrivere la situazione in cui ci troviamo ora a vivere. E forse per questa ragione il suo pensiero è tornato di moda negli ultimi anni. Certo è che la sua analisi può ancora oggi essere attuale, più dell’inconcludente determinismo riformista che caratterizza il dibattito pubblico sul Jobs Act, per chi sia alla ricerca di una nuova identità del lavoro che cambia.
Il lavoro come merce, l’uomo come individuo
Per Polanyi il lavoro non è una merce di scambio: basterebbe questo per differenziarlo da tutta la teoria economica dominante a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Ed è proprio questo il suo punto di partenza. Polanyi sostiene che la moderna economia di mercato non sia assolutamente una scienza esatta e per tale ragione gli studiosi hanno il compito di criticarla. Il lavoro come merce è quindi una invenzione moderna, che ha all’origine la nuova idea di individuo che sostituisce la nozione di persona. La persona è un soggetto in relazione con altri soggetti, l’individuo, al contrario, è un tutto in sé stesso. Si concepisce come separato dalla società e come colui che ha la completa proprietà di se. Se l’uomo-individuo è il proprietario di se stesso il suo lavoro è una merce che può offrire sul mercato al miglior offerente. Nasce così un concetto che ormai è tanto assodato da essere accettato da tutti senza riserve: il mercato del lavoro.
Una questione economica? No, antropologica
“Il lavoro” – scrive Polanyi – “è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita, essere accumulato o mobilitato.” Diretta conseguenza di questa concezione è “il principio di libertà contrattuale”, per il quale il legame che si crea tra datore di lavoro e lavoratore è consentito dal fatto che il lavoratore vende qualcosa che è di sua proprietà.
Polanyi individua la Grande trasformazione in un nuovo paradigma antropologico. L’uomo individualista secondo l’economia classica è homo oeconomicus, che realizza le sue ambizioni economiche vendendo il proprio lavoro, sua proprietà. Questa teoria dimentica, secondo l’autore, che spesso il lavoro è mosso da motivazioni “derivanti dal senso del dovere verso se stesso e verso gli altri (e forse, persino, godendo in segreto del lavoro come fine in sé)”.
La reazione della società: il contromovimento
Per Polanyi l’uomo non è individuo ma ha relazioni con altri soggetti, e questi danno origine alla società nel suo insieme. Ed è proprio questa società quella che risponde al nuovo paradigma che mercifica il lavoro. Questa reazione dialettica viene da lui definitacontromovimento. Un esempio può essere la nascita dei sindacati nell’Inghilterra industriale. Per Polanyi la nascita di contromovimenti è la dimostrazione che il modello individualista liberale non funziona pienamente.
La nuova grande trasformazione del lavoro
È innegabile che ci troviamo davanti a una nuova Grande trasformazione, completamente diversa da quella descritta cinquant’anni fa. Non è questo il luogo per descrivere le sue caratteristiche, ma possiamo dire che è la diretta conseguenza della crisi del modello antropologico ed economico descritto da Polanyi. E la dimostrazione è proprio il trionfo di queicontromovimenti che, come abbiamo visto, sono segno di fallimento di un modello. Tra questi possiamo citare l’impresa post-fordista che è incentrata sulle competenza del soggetto, che sono parte integrante del suo funzionamento e non sono un qualcosa che si acquista attraverso un contratto. O ancora le forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, lo sviluppo della contrattazione decentrata e il grande aumento di lavoratori autonomi.
Per queste ragioni è arrivato il tempo di riscrivere la Grande trasformazione, e di farlo sulla scorta della indicazione valoriale e metodologica di Polanyi perché “non spetta all’economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile. Una cosa abbonda in una società industriale, e cioè il benessere materiale, oltre il necessario. Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell’amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo”.
Il messaggio degli storici e dei filosofi ai decisori politici e agli economisti è ancora oggi quello che indicava Polanyi: possiamo e dobbiamo permetterci di essere, allo stesso tempo, giusti e liberi.
Responsabile Comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
@francescoseghez