Lo skill mismatch, ovvero lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, riguarda tra il 25 e il 45% della forza lavoro in Europa. Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi ADAPT, spiega perché è un problema anche in Italia e cosa si dovrebbe fare per colmarlo
Lo chiamano skill mismatch. In italiano, disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, in Europa tra il 25 e il 45% della forza lavoro ha troppe o troppo poche competenze rispetto a quelle richieste dai datori di lavoro.
Secondo Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi ADAPT, il disallineamento tra domanda e offerta è una delle cause dell’alta disoccupazione, soprattutto giovanile, in Italia. Gli abbiamo chiesto perché.
Professore, si parla spesso di disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: qual è lo scenario in Italia?
Manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Così, i giovani, anche se prendono bei voti, non riescono a trovare un’occupazione. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche, mentre il nostro sistema di orientamento, comprese le famiglie, spinge i nostri ragazzi verso i licei e verso i percorsi umanistici come se fossero l’unica strada per realizzarsi.
Lei ha affermato che, in un contesto dove la disoccupazione giovanile è al di sopra del 40%, chi fa percorsi tecnici e professionali il lavoro lo trova. C’è un problema di sovraqualificazione?
Studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch. Se il sistema crea professionisti di cui il mercato non ha bisogno poi è normale che i giovani siano obbligati a fare lavori diversi da quelle che erano le loro aspettative al momento dell’iscrizione all’università.
Ma non sarà che, al di là di tutto, le aziende non assumono perché non c’è abbastanza lavoro e non perché la forza lavoro non è formata adeguatamente?
È vero che le aziende oggi non hanno grandi prospettive di crescita e occupazionali. Ma è un circolo vizioso. Se le imprese potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere. Pensiamo alla Germania: l’occupaizone di giovani continua a crescere perché sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato. Lì le imprese sono competitive perché collaborano con il sistema scolastico, hanno una forza lavoro professionalizzata e creano sviluppo e lavoro: è un percorso virtuoso. Qui c’è poco spazio per assumere perché le aziende sono poco creative, non dotate di forza lavoro attrezzata per dare loro linfa vitale e creare nuove opportunità.
Realisticamente, come se ne esce?
Noi stiamo discutendo la riforma del lavoro ma stiamo dimenticando la questione dei tirocini, che sono tra gli strumenti più importanti per combattere il disallineamento. Bisogna aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. Se sono sganciati da un percorso formativo, diventano contratti di inserimento. Occorre pensare a un’alternanza scuola-lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi. E poi, alla fine del percorso di studio-lavoro, puntare sull’apprendistato. Inoltre, per correggere gli errori di sistema, uno strumento utile potrebbe essere la messa a regime di Garanzia Giovani. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.
È anche importante l’orientamento?
Orientamento è la parola chiave: è fondamentale aiutare a fare la giusta scelta dopo le scuole superiori. Università o lavoro? Occorre invitare i ragazzi a intraprendere dei percorsi coerenti alle loro attitudini e ai loro ma tenendo conto delle possibilità reali. C’è chi ha davvero la vocazione per discipline non tecniche e va giustamente guidato verso un percorso universitario adeguato. Ma ci sono altri ragazzi che, pur avendo potenzialmente l’inclinazione verso un lavoro manuale, non vengono incoraggiati. Si bloccano perché non c’è nessuno che spiega loro come muoversi.
Perché in Italia non funziona?
Non funziona per vari motivi di tipo organizzativo, legati al modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. Ma è un problema anche di tipo valoriale, culturale. Scontiamo ancora un pregiudizio, da parte delle famiglie e dei giovani, verso il lavoro manuale, tecnico. Mentre è facile vedere che nel Nord Europa a 16 anni si cominciano già percorsi tecnici professionali, man mano che si scende c’è la rincorsa al pezzo di carta. Gli stessi ragazzi che vanno agli ITIS purtroppo qui si considerano di serie B perché è cosi che la società li dipinge.
La riabilitazione dell’immagine dell’artigianato e del lavoro manuale non è ancora riuscita del tutto?
C’è un po’ meno pregiudizio verso questi settori. Se ne parla, ma il genitore continua a sperare per il figlio una carriera universitaria. Lo prova il fatto che gli artigiani e i commercianti cercano forza lavoro che sappiano fare cose manuali ma non la trovano. Se non ci fosse forza lavoro extracomunitaria difficilmente troverebbero personale.