Almeno per una volta si può essere “politically(in)correct” sentendosi incoraggiati ad osservare la metà piena del bicchiere. Sulla base degli ultimi avvenimenti, si direbbe che l’AC 2660 si avvii verso una sollecita approvazione alla Camera (è calendarizzato in Aula per il 26 novembre), grazie ad un’intesa raggiunta all’interno del Pd (in cui è coinvolta una parte della rissosa minoranza interna) che poi – avrebbe potuto essere altrimenti? – è stata assunta dalla maggioranza nel suo complesso. Ciò, con riguardo tanto alla disciplina del licenziamento individuale annessa al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, quanto alle questioni del c.d. demansionamento e dei controlli a distanza. Il nuovo testo delle relative norme di delega dovrebbe seguire l’impostazione contenuta nell’ordine del giorno approvato dalla Direzione del Pd, il 29 settembre scorso.
In sostanza, oggi tutti (sia quelli che non lo votarono perché contrario alla “cultura dei diritti”, sia quelli che denunciarono in esso un vistoso cedimento alla sinistra trinariciuta) sembrano riconoscersi in quel documento come se, in quella serata di fine estate, l’arcangelo Gabriele, in persona, avesse effuso benefici auspici sorvolando Piazzale del Nazareno. Certo, il passaggio di Montecitorio dovrà fare i conti con i residui mal di pancia in casa del Pd e con l’ostruzionismo delle opposizioni, ma la maggioranza dovrebbe tenere. Poi, basterà la terza lettura del Senato, dove i rapporti sono più equilibrati anche all’interno della maggioranza, per arrivare alla approvazione della delega.
Corre voce che i decreti più importanti siano in fase di avanzata preparazione, proprio per garantire – svolti gli adempimenti previsti – la loro entrata in vigore nel corso del mese di gennaio. Se questi saranno gli esiti potremo dire, davvero, che l’Italia #cambiaverso? Il nostro non è un Paese dai furori giacobini quando deve misurarsi con le riforme. I mutamenti, anche quelli più necessari ed urgenti, impongono sempre tempi lunghi e parti laboriosi. Se si considera l’arco temporale richiesto – dall’inizio alla fine dei processi – i cambiamenti più importanti in materia di lavoro e di welfare hanno richiesto un decennio per l’abolizione della scala mobile (la fabbrica dell’inflazione), ben 17 anni per il “superamento” delle pensioni di anzianità (il killer della previdenza obbligatoria); se in meno di un triennio (dal 2012 ad oggi) diventerà possibile realizzare un’importante revisione del tabù dell’articolo 18 dello Statuto, occorrerà riconoscere che ci siamo messi a correre (magari lento pede).
Del resto, in un Paese come l’Italia dove i giudici reintegrano i lavoratori sorpresi a rubare sostenendo che, in fondo, si sono impossessati di poco, o i direttori di filiali bancarie che truffano il loro istituto (col pretesto che il danno non è poi stato tanto grave), era ragionevole pensare che la tutela per un nuovo assunto, accusato di un comportamento infamante che risultasse, in giudizio, manifestamente infondato, potesse essere soltanto di carattere risarcitorio? A quanto pare, invece, verranno indicate alcune fattispecie di licenziamento, per motivo soggettivo illegittimo, da sanzionare con la reintegra, a fronte della sola sanzione pecuniaria negli altri casi.
Abbiamo trovato interessante, a questo proposito, un’intervista di Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, al Corriere della Sera del 14 novembre scorso (il giorno successivo all’accordo), nella quale si affaccia l’ipotesi che, nella fattispecie di licenziamento disciplinare ritenuto illegittimo, il datore di lavoro condannato alla reintegra possa optare per un indennizzo. Questa sarebbe una soluzione idonea, che salverebbe i cavoli del lavoratore (che riceverebbe un riconoscimento morale importante ed un congruo risarcimento del danno) e la capra del datore (non disposto a ristabilire un rapporto di collaborazione con il proprio dipendente). A tale soluzione sta lavorando un gruppo ristretto presso la presidenza del Consiglio, nella prospettiva di varare al più presto il relativo decreto delegato. Sarebbe sufficiente aggiungere alla dozzina di parole canoniche (e laconiche) del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, le frasi seguenti: «….che includa una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro resta in vigore per i licenziamenti discriminatori e per quelli di natura disciplinare, di cui sia provata la manifesta insussistenza del fatto contestato nella misura in cui esso prefiguri una lesione della dignità e della figura morale e professionale del lavoratore, ferma restando l’opzione per il datore soccombente di optare per l’erogazione di una indennità risarcitoria, pari a 1,5 (2) mensilità per ogni anno di anzianità, entro il limite massimo di 36 mensilità di retribuzione globale di fatto».
L’emendamento, così formulato, assumerebbe, per quanto riguarda il licenziamento economico, il testo della Direzione del Pd del 29 settembre. Quanto ai licenziamenti disciplinari sarebbe prevista, nei casi più gravi, la reintegra, concedendo, tuttavia, al datore l’opzione di monetizzare anziché riassumere. Al giudice resterebbe soltanto il compito di applicare la legge lungo un percorso già predeterminato anche nella quantità del risarcimento opzionale.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus