I già discutibili effetti di un preciso punto della Riforma Fornero – quello relativo agli effetti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo conclusosi con un accordo conciliativo in sede di Direzione Territoriale del Lavoro – rischiano di dilatarsi in maniera abnorme se confrontati con le nuove agevolazioni previste dalla Legge di Stabilità, alla luce delle interpretazioni fornite dal Ministero del Lavoro nell’interpello 29/2014.
In modifica dell’art. 7 della L 604/66, oltre d anni fa l’art. 1 co. 40 della L. 90/2012 ha infatti previsto che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte di azienda con i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della L. 300/70, il datore di lavoro debba attivare una procedura obbligatoria di conciliazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro addirittura prima di procedere con il licenziamento, comunicando la sola “intenzione” di attivare la cessazione del rapporto. In seguito alla convocazione da parte della Commissione di Conciliazione della DTL, qualora si pervenisse ad un accordo circa il licenziamento del lavoratore, lo stesso sarebbe considerato una “risoluzione consensuale”, tuttavia con il diritto (eccezionale per la casistica predetta) del lavoratore di percepire l’ASpI, ovvero la nuova forma di ammortizzatore sociale per la disoccupazione. A meno di un’improbabile, in quanto marchiana, svista del legislatore, deve ritenersi che la scelta della “derubricazione” da licenziamento a risoluzione consensuale sia stato un vero e proprio benefit concesso al datore di lavoro per favorire una soluzione conciliativa all’intervenendo licenziamento, in un’ottica di mera deflazione del contenzioso (una intenzione, curiosamente, non dissimile da quella prevista all’art. 6 comma 1 dello schema di decreto sul contratto a tutele crescenti, ovvero un vantaggio di natura fisco-previdenziale sull’offerta di conciliazione datoriale; quantomeno, non aggiungendo benefit a benefit, al licenziamento dei lavoratori interessati alla nuova disciplina del contratto a tutele crescenti, lo schema governativo – ultimo comma dell’art. 3 – prevede la non applicazione dell’articolo 7 della legge n. 604 del 1966, e quindi sui “nuovi “ licenziamenti non sarà applicabile la procedura obbligatoria, e quindi l’eventuale nuova conciliazione non esiterà mai in una risoluzione consensuale).
Si noti, peraltro – e tale considerazione è rafforzata dalla pratica esperita in merito da oltre due anni – che non solo il lavoratore non ha nessuna volontarietà nella cessazione in argomento (attivata unilateralmente dall’azienda), vivendo la comunicazione dell’intenzione aziendale con la stessa sorpresa e drammaticità di un licenziamento tout court (quale obiettivamente esso è e rimane), ma l’esito di una soluzione consistente in una mera contropartita economica – due anni fa come oggi – appare quasi scontato, considerando che nel frattempo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo la stessa L. 92/2012 ha contemporaneamente tolto l’opzione del reintegro, risultando pertanto il confronto possibile solo sul quantum di un eventuale risarcimento, peraltro dalla stessa norma contenuto entro un importo massimo di 24 mensilità.
Tuttavia la soluzione legislativa della Riforma Fornero, come detto rettificata nel contratto a tutele crescenti ma tuttora e per lungo tempo ancora persistente a causa delle varie “discipline parallele” sul licenziamento, presenta ora il conto sul lato dei suoi possibili, e forse non bene inquadrati, effetti perversi. Osserviamo, per comprendere, la recente risposta interpretativa fornita nell’interpello 29/2014 dal Ministero del Lavoro: sia pure con riferimento ai benefici contributivi dell’art. 8 comma 9 della L. 407/90, il Ministero non ritiene incompatibile la fruizione di tali benefici nei confronti dell’assunzione di personale della medesima qualifica di quello cessato, quando la cessazione (originata dalla intenzione unilaterale aziendale) si sia conclusa con una risoluzione consensuale ai sensi dell’art. 7 L. 604/66. La logica che trapela chiaramente, al riguardo, è quella di considerare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – esitato nella predetta conciliazione – esattamente e meramente quale “risoluzione consensuale” ad ogni e qualsiasi effetto, perdendo qualsiasi aggancio (anche solo sotto un profilo meramente “ontologico”) con la volontà aziendale di attivare un licenziamento. In tal modo, tuttavia, si noti come un’azienda potrebbe procedere alla vera e propria “sostituzione” di una parte del proprio personale (anche riguardevole: si noti che la medesima deduzione logica permetterebbe infatti al datore di lavoro di aggirare, con una serie di azioni mirate dilazionate nel tempo, i vincoli e le tutele poste ai licenziamenti collettivi dalla L. 223/91), licenziando (e poi “sanando” conciliativamente il licenziamento, che diventerebbe tamquam non esset) ed essendo così libero di adire a successive nuove assunzioni, addirittura godendo delle eventuali agevolazioni ad esse relative.
Tale concetto, che appariva comunque già abbastanza distorsivo rispetto ai presupposti ed alle finalità dell’art. 8 comma 9 della L. 407/90 (le cui agevolazioni sono state ora abrogate) diventa a dir poco dirompente se confrontato con le incentivazioni previste dall’art. 1 comma 118 della Legge di Stabilità 2015 (sgravio contributivo per tre anni), consentendo ancora più agevolmente al datore di lavoro di poter programmare azioni, anche di un certo impatto sotto il profilo occupazionale, di “svecchiamento” o sostituzione del personale con addirittura un considerevole sostegno contributivo assicurato dallo Stato, con ciò vanificando uno dei presupposti del predetto comma, ovvero un rilancio dell’occupazione (e non certo un mero “rinnovamento” della forza lavoro, magari con fini non propriamente egregi).
Il Ministero del Lavoro, obiettivamente, nell’interpello 29/2014 in commento si attiene ad una interpretazione che sotto il profilo letterale risulta del tutto ineccepibile: se la norma (in questo caso la L. 92/2012) ha deciso, al ricorrere della casistica predetta, di riqualificare un licenziamento (che tale è e rimane nella sua genesi ed esito, tanto da generare il diritto del lavoratore a percepire un’indennità destinata a sostenere uno stato di disoccupazione “involontario”) come risoluzione consensuale, a tale ultima definizione deve farsi esclusivo riferimento, dovendo pertanto ritenersi – fra le altre cose – lecita e possibile (ieri ed ancor più oggi) l’agevolazione per l’assunzione di lavoratori con le medesime mansioni di quelli dismessi (e quindi di fatto “in sostituzione” direttamente operata dall’azienda, sostituzione che invece correttamente non potrebbe ritenersi tale quando l’azienda si trovasse involontariamente – ad esempio intervenendo le dimissioni del lavoratore – scoperta di una determinata professionalità).
Nell’attuale, se lo schema di decreto sul contratto a tutele crescente annulla (ma solo sui licenziamenti relativi ai nuovi assunti) la procedura dell’art. 7 della L. 604/66 (e quindi, ma non si sa quanto “consapevolmente”, gli effetti perversi della derubricazione in risoluzione consensuale del licenziamento per gmo “conciliato”), il permanere di tale impostazione per il passato, confrontata con le nuove tutele ed incentivi all’assunzione rischia di delineare una nuova frattura generazionale, questa volta a favore dei “giovani”, la cui assunzione agevolata in “sostituzione” di personale più anziano potrebbe per tanti versi apparire nell’immediato conveniente non tanto in vista del più facile futuro licenziamento, previsto dalla nuova legge, ma per un “retaggio” della norma passata.
Andrea Asnaghi
ADAPT Professional Fellow
* il presente intervento è un estratto di un contributo dell’Autore in pubblicazione sul prossimo numero della rivista Diritto delle Relazioni Industriali.