Anche quest’anno, come ogni anno, la presentazione del disegno di legge di stabilità ha dato il via al rito consueto, che vede migliaia di persone confrontarsi ed affannarsi nel tentativo di migliorare l’impianto della legge.
Va subito detto che è del tutto fisiologico che al momento della presentazione delle proposte segua il momento della selezione e, pertanto, che una gran parte degli emendamenti formulati non veda la luce della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Pertanto, chi partecipa al rito deve anzitutto metabolizzare una regola di base: è assolutamente inutile tenere il broncio se la tua idea non viene accolta. Anzi, gli insuccessi ti offrono l’occasione per domandarti quali modalità e quali argomenti avresti potuto utilizzare per centrare il risultato e ti spingono a riflettere sulla strada da seguire per riprovarci domani.
Esaurita questa doverosa premessa, che confido concorra ad attribuirmi quell’aura di imperturbabile saggezza che ho sempre sognato di possedere, vorrei raccontarvi un episodio che – complice la mia indole di ingenuo sognatore per nulla scalfita da più di trent’anni di frequentazione delle segrete stanze – ha messo a dura prova il mio sistema cardio-circolatorio.
A questo punto, avrete intuìto che anch’io non ho voluto far mancare il mio contributo al dibattito sulla legge di stabilità e che ho concorso – insieme ad amici e colleghi – ad elaborare e far circolare alcune proposte che ritenevo meritevoli di attenzione. Una di queste proposte era volta ad “affinare” la norma che consente di dedurre dall’imponibile IRAP il costo del lavoro relativo al personale assunto a tempo indeterminato (articolo 1, comma 20, legge 22 dicembre 2014, n. 190).
Contrariamente a quel che sovente accade in questi casi, la proposta di cui vi voglio parlare non introduceva nessun aumento di spesa. Al contrario, determinava un sicuro contenimento dei costi, seppur in misura tutta da quantificare. Si trattava infatti di un emendamento che proponeva di limitare l’accesso all’incentivo, riservandolo unicamente alle imprese che applicano i contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative. In altri termini, in uno scenario di risorse limitate e di mercato del lavoro non immune da episodi di dumping sociale, si proponeva di riconoscere uno sgravio fiscale di particolare rilevanza unicamente ai datori di lavoro che accordano ai propri dipendenti un trattamento non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi.
Sono il primo a riconoscere che la proposta non brilla per originalità, inserendosi nel solco tracciato da autorevoli e noti precedenti, tra i quali l’articolo 36 dello Statuto dei lavoratori (obblighi dei titolari di benefici accordati dallo Stato), le varie disposizioni che regolano l’individuazione della retribuzione da assumere a riferimento per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale e, più recentemente, l’articolo 10 della legge Biagi (riconoscimento di benefici normativi e contributivi alle imprese artigiane, commerciali e del turismo). Ma proprio l’insieme dei caratteri enunciati (tutela dei lavoratori, contrasto a fenomeni di concorrenza sleale tra le imprese, risparmio di spesa pubblica e coerenza con esperienze consolidate) sembrava costituire il miglior viatico per consentire a tale proposta di emergere dal magma dei 3.800 emendamenti presentati in Senato.
L’emendamento poteva inoltre contare su un sostegno bipartisan, essendo stato presentato, nel medesimo testo, da undici parlamentari appartenenti ai gruppi PD, NCD e FI. L’apoteosi si è poi raggiunga quando un autorevole dirigente di un gruppo parlamentare di maggioranza ha affermato «il nostro partito non può che sostenere questo emendamento. Mi dispiace di non averci pensato io».
Per quale motivo allora la proposta è stata scartata senza esitazione? Io non lo so, ma volentieri mi rendo disponibile ad un dibattito sull’argomento, che ritengo debba comprendere anche una discussione sul ruolo della contrattazione collettiva, in cui si parli anche del contratto di prossimità, del salario minimo da definire per legge e della guerra di tutti contro tutti che si rischia di innescare nei settori popolati in prevalenza da piccole e medie imprese.
In attesa di sapere cosa ne pensate, quale che sia il vostro sentiment in relazione all’aria di rottamazione che aleggia sulle organizzazioni di rappresentanza, mi permetto di suggerire sommessamente di non commettere l’errore di pensare che un Paese senza contrattazione collettiva sia un Paese migliore.
Alessandro Massimo Nucara
Direttore Generale Federalberghi