Il 13 gennaio è stato sottoscritto da Confindustria e Federmanager il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi, scaduto il 31 dicembre 2014.
La sottoscrizione giunge all’esito di un negoziato arduo, caratterizzato anche da momenti di tensione quali la disdetta del Ccnl, trasmessa formalmente da Confindustria il 28 ottobre 2014 e che, dal 1° gennaio 2015, avrebbe prodotto una situazione di anomia contrattuale. Tale atto ha segnato un momento di distacco nella storia di relazioni industriali tra le suddette Parti sociali, da sempre improntata ad una logica partecipativa e di partnerariato.
La mancata firma avrebbe comportato l’estinzione del contratto collettivo per i dirigenti dell’industria, da alcuni fronti percepito come una peculiarità tutta italiana che poco si amalgama rispetto ad un sistema globalizzato, per altri anacronistico rispetto all’attuale, difficile, momento economico.
Simili considerazioni possono giustificare la scomparsa di un contratto nazionale, massima espressione di relazioni industriali sane, improntate al dialogo sociale? A fronte di cosa?
Per conseguenza, la categoria dirigenziale del settore industria, come avvenuto per il credito, avrebbe perso la propria autonomia contrattuale, intesa come un personale e peculiare sistema di norme e tutele: si pensi, a titolo esemplificativo, alle tutele in materia di responsabilità civile e penale; a quelle previste in caso di licenziamento individuale ingiustificato – con mensilità aggiuntive al preavviso –; all’indennità di trasferta e agli scatti di anzianità.
La sottoscrizione, pur tenendo certamente conto di questi elementi, come sottolinea Giorgio Ambrogioni, Presidente di Federmanager, è stata frutto di una di una scelta consapevole e responsabile: «Si è firmato soltanto quando si è ritenuto di aver salvaguardato la maggioranza dei dirigenti rappresentati (oltre l’80%), quelli con una retribuzione annua lorda superiore agli 80.000 euro, per i quali sono stati confermati sia il regime degli aumenti di anzianità, sia l’istituto della indennità di trasferta», così, appunto, nelle parole di Giorgio Ambrogioni.
Certamente tra gli obiettivi rincorsi e raggiunti l’introduzione dell’obbligatorietà, in capo alle imprese, di riconoscere la retribuzione variabile ai dirigenti neoassunti il cui trattamento economico annuo lordo sia pari al TMCG (trattamento minimo complessivo di garanzia).
Tale traguardo è valso, tuttavia, la rinuncia al secondo livello di TMCG – fissato sugli 80.000 euro al raggiungimento di sei anni di anzianità nella qualifica e nell’azienda – a fronte di un attuale unico livello retributivo minimo fissato sui 66.000 euro riconosciuti ai nuovi nominati, così come ai dirigenti in itinere, ossia con una anzianità di servizio nella qualifica e nell’azienda, al 1° gennaio 2015, superiore all’anno e inferiore ai 6 anni. Per il principio di certezza del trattamento, per costoro, si è concordato di cristallizzare il percorso lavorativo svolto in categoria, riconoscendogli un pro-rata determinato sulla base dei mesi di servizio maturati in tale data.
Sul piano delle risoluzioni individuali dei rapporti di lavoro tenendo conto dell’evoluzione del quadro legislativo generale in materia, sono stati ridefiniti gli importi dovuti in caso di licenziamento ingiustificato, crescenti al crescere dell’anzianità aziendale, dunque non solo in categoria. Tale meccanismo, insieme ad un unico livello di ingresso del TMCG, risponde all’intento di favorire le nuove assunzioni con qualifica dirigenziale; difatti, in coerenza con tale disegno, è stato stabilito che sino a due anni di anzianità aziendale vengano corrisposte due mensilità pari al corrispettivo del preavviso. Non è più possibile chiudere gli occhi di fronte all’ormai nota e sconcertante perdita di risorse manageriali cui si è assistito negli ultimi anni, insieme alla peculiarità per cui il nostro Paese, in ambito comunitario, risulta essere quello a più basso tasso di managerialità. Tale modifiche contrattuali sono dunque frutto della volontà di mettersi in gioco attivamente per facilitare il raggiungimento di tale obiettivo cui, tuttavia, deve necessariamente accompagnarsi un cambiamento culturale: la percezione della plusvalenza della cultura manageriale.
I temi della solidarietà, mutualità e sostenibilità hanno sospinto la messa in sicurezza del sistema di welfare contrattuale in tema di previdenza, sanità e politiche attive. Al fine di assicurare l’equilibrio economico-finanziario del Fasi, il Fondo di assistenza sanitaria integrativa categoriale, è stata rivista la contribuzione, rafforzata l’autonomia gestionale attraverso una riforma del sistema di governance che ha previsto la prossima istituzione di un organo assembleare, sempre a composizione paritetica, e creato un fondo finanziario per le iniziative di politica attiva, di orientamento, formazione e placement.
Guardando l’impianto contrattuale nel complesso emerge con forza la volontà di premiare la produttività ed utilizzare, finalmente, anche il contratto collettivo nazionale, per tradizione sede definitoria dei trattamenti minimi, come ulteriore leva per assicurare la cogenza di una parte variabile legata ai risultati soprattutto nelle realtà imprenditoriali medio-piccole. Partendo dagli assunti per cui chi produce deve essere premiato e quello secondo cui, per definizione, non esiste dirigente slegato dalle performance aziendali, l’obbligatorietà della variabile non può che scaturirne come logica conseguenza.
Valentina Picarelli
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@valepic86