Dopo le vicende dell’elezione del Capo dello Stato le minoranze del Pd pensavano di poter spostare a sinistra la politica del Governo nelle materie che a loro più interessano, a partire dalla predisposizione dei decreti attuativi del Jobs Act Poletti 2.0.
In sostanza, speravano di forzare la mano al premier, per indurlo ad avvalersi, in materia di lavoro, di un’ulteriore maggioranza (in aggiunta a quelle che Renzi ha usato ed usa con un bel po’ di spregiudicatezza e cinismo in altre circostanze) comprendente, in modo determinante, il Sel e i grillini (tanto “ex”, quanto tuttora in servizio permanente effettivo).
Questo disegno si era concretizzato nei pareri, obbligatori e non vincolanti (è bene ricordarlo alla Presidente Laura Boldrini), delle Commissioni di Senato e Camera, dove i gruppi del Pd avevano introdotto, con l’appoggio delle opposizioni di sinistra e populiste, condizioni (usiamo il termine nel significato tecnico proprio dei riti parlamentari) che, al di là degli effetti pratici, avrebbero mandato un chiaro segnale di inversione di rotta. Con tutto il rispetto dovuto ai ruoli istituzionali e agli esponenti che li ricoprono, le due principali richieste, contenute nei documenti approvati, erano prive di coerenza giuridica e di senso logico.
Non trovava alcuna giustificazione, infatti, che dei licenziamenti “economici” – ormai divenuti individuali a conclusione delle procedure sindacali e amministrative previste nel caso di licenziamenti collettivi – venissero sanzionati (se ritenuti ingiustificati) diversamente da quelli che individuali erano fin dall’inizio, soltanto in conseguenza di un’accertata violazione dei criteri di selezione: addirittura con la reintegra anziché con la prevista indennità risarcitoria. In materia non c’era alcun eccesso di delega, come hanno sostenuto le minoranze dem, dal momento che la formulazione della norma era chiaramente riferibile a tutte le tipologie di licenziamenti “economici”. Quanto alla pretesa di elevare sia la soglia minima sia quella massima dell’indennità risarcitoria, ciò avrebbe squilibrato tutto l’impianto sanzionatorio che costituisce una delle più importanti certezze che la nuova disciplina intende riconoscere alle imprese.
Nella seduta del 20 febbraio, il Governo ha messo, poi, le carte in tavola anche per quanto concerne l’attuazione delle altre deleghe. Rispetto alle preoccupazioni della vigilia, dobbiamo riconoscere che – negli schemi preliminari – i danni sono stati in parte contenuti ed in parte compensati. La riforma del contratto a termine, per ora, non ha subito modifiche e potrà continuare, comunque, a svolgere la funzione di “uscita di sicurezza” per le imprese, essendo questa forma contrattuale sottratta, per la durata consentita, all’esame del giudice relativamente alla trappola della causale. Lo schema riguardante le tipologie contrattuali assume il profilo di un Testo Unico, con norme sostanzialmente ripetitive di leggi già esistenti e della relativa giurisprudenza consolidata.
Per quanto riguarda le abrogazioni (la contropartita pagata alla mistica della lotta al precariato), sotto la scure giustiziera cadono soltanto le associazioni in partecipazione (nonostante un’ampia ed antica regolamentazione codicistica, rivisitata dalla legge n. 92 del 2012) e il lavoro ripartito.
Ma il demonio da esorcizzare sono le collaborazioni (anch’esse già messe sotto pressione dalle legge Fornero). In proposito riportiamo il testo del comunicato stampa del Governo: «A partire dall’entrata in vigore del decreto non potranno essere attivati nuovi contratti di collaborazione a progetto (quelli già in essere potranno proseguire fino alla loro scadenza). Comunque, a partire dal 1° gennaio 2016 ai rapporti di collaborazione personali con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato. Restano salve le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedono discipline specifiche relative al trattamento economico e normativo in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore e pochi altri tipi di collaborazioni».
L’intervento non ha alcuna giustificazione, ma, tuttavia, non è estranea una certa ragionevolezza: è previsto, infatti, un periodo di transizione e sono indicati criteri e parametri in base ai quali saranno ancora ammesse queste forme contrattuali sia in termini generali che attraverso la contrattazione collettiva. In pratica, l’uso dei contratti di collaborazione viene sospinto verso fasce qualificate di lavoro autonomo e praticamente precluso ai livelli più bassi. Il che è parecchio innovativo rispetto alla giurisprudenza consolidata che, nell’accertamento delle tipologie, aveva considerato prevalenti le modalità di esercizio delle mansioni, tenendo fermo il principio per cui ogni attività economicamente rilevante può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata. I co.co.pro., sebbene in un trend di ridimensionamento dopo la legge del 2012, sono pure sempre più di 500 mila. Mettiamo pure che una parte di questi contratti possa proseguire nel precedente regime; un’altra parte, consistente, sarà trasformata, di fatto ope legis, in rapporti a tempo indeterminato, seppure a tutele crescenti. Sarà comunque un problema. C’è da augurarsi che le associazioni imprenditoriali e i sindacati sappiano dimostrare quella saggezza necessaria a trovare soluzioni eque e corrette, come, peraltro, hanno già fatto in altre occasioni, di fronte alle svolte illuministiche del legislatore.
Continua a suscitare, poi, più di un ragionevole dubbio che si insista – il comunicato stampa lo afferma con visibile orgoglio – nell’applicare la nuova disciplina anche organizzazioni di tendenza (“i datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”). La norma sostituisce quanto stabilito dall’articolo 4 della legge n. 108/1990 (che prevedeva appunto la non applicazione delle tutele contro il licenziamento a favore dei dipendenti delle suddette organizzazioni), al pari di quanto sancito dall’articolo 20 della legge n. 416/1981 che accumunava alle organizzazioni di tendenza i giornali quotidiani e i periodici che risultavano, attraverso esplicita menzione riportata nella testata, organi di partiti, di sindacati o di enti o comunità religiose. Queste disposizioni legislative si erano limitate a codificare quanto sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza: dato il carattere ideologico dell’organizzazione, il singolo non svolge un’attività in attuazione di un rapporto obbligatorio, ma in adesione all’ideologia dell’organizzazione stessa. Se si ammettesse la tutela dell’ideologia del singolo lavoratore si negherebbe – afferma la migliore dottrina – la protezione di quella dell’organizzazione, costretta a mantenere un rapporto con un soggetto “dissidente”. In sostanza, la “tendenza” entra in qualche modo nella causa del contratto di lavoro, cosicché la collaborazione del lavoratore è conforme agli impegni contrattuali se coincide con le finalità ideologiche perseguite dal datore di lavoro. Ne consegue che il mutamento di opinione del lavoratore, pienamente libero e tutelabile nell’ordinamento generale, si trasforma, nell’organizzazione di tendenza, in un inadempimento delle obbligazioni assunte con il contratto. Ecco perché è soltanto una concessione alla demagogia estendere la tutela contro il licenziamento discriminatorio ai dipendenti delle “organizzazioni di tendenza”: la concreta applicazione di una norma siffatta produrrà dei veri e propri “mostri” in una Paese come l’Italia dove opera una magistratura impicciona (il caso Lusi è lì a dimostrarlo).
Poche considerazioni sul decreto riguardante gli ammortizzatori sociali. Si trattava, nelle intenzioni del Governo, di un’operazione ambiziosa, promessa come “estensione universale” delle tutele. In realtà, la limitatezza delle risorse finanziarie, ne hanno imposto un notevole ridimensionamento. E questa circostanza rimane a testimonianza del perdurare di un vistoso squilibrio tra “vecchie” tutele che vengono (per fortuna) meno e “nuove” che (purtroppo) stentano ad affermarsi. Resta, poi, il vero problema: il riproporsi di un nuovo dualismo, in rapporto all’assunzione, in materia di tutela contro il recesso illegittimo. Ma questo è il “peccato originale” del Jobs Act.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus