Il 13 marzo, a Modena, si è tenuto un incontro intitolato Dalle collaborazioni continuate e continuative al lavoro a progetto, e ritorno, in cui si è parlato di aspetti tecnici riguardanti le novità che potrebbero essere introdotte con il nuovo Decreto attuativo del Jobs Act in materia di collaborazioni a progetto e collaborazioni coordinate e continuative.
L’intervento conclusivo del seminario, tenuto dal Prof. Michele Tiraboschi, si è poi spinto ad una più ampia analisi della progettualità contenuta nel Jobs Act e della capacità delle norme di accompagnare il mercato del lavoro in questo periodo di grandi mutamenti socio-economici. Il ridursi delle tutele in materia di licenziamento, previsto con la recente introduzione del contratto a tutele crescenti, apre la strada a nuove politiche di ricollocazione, e i riformati “ammortizzatori sociali” dovrebbero essere in grado di far fronte alle mutate esigenze di un mercato che richiede sempre maggiore flessibilità.
Durante il seminario si è evitato di discutere dei limiti progettuali e tecnici della nuova bozza di riforma, cercando di osservarne innanzitutto le potenzialità in un’ottica di miglioramento normativo. Ciò che però è emerso è la scarsa attenzione al substrato socio-economico su cui questa riforma è sorta; già da diversi anni è evidente che stiamo assistendo a grandi modificazioni del concetto di lavoro, non solo inteso come modo di produrre beni e servizi, ma anche della sua concezione e percezione culturale.
È infatti emerso il confronto tra la logica progettuale che era stata alla base della Legge Biagi e quella che pare essere la sostanza del Jobs Act; il metodo adottato a suo tempo per la stesura della Legge Biagi è stato assimilato alle teorie di Polanyi (Karl Polanyi, La grande trasformazione, 1944), in particolare alla sua analisi sociologica della Grande Trasformazione, basata sull’idea che le trasformazioni economiche sono sempre fondate, e quindi causate, da un analogo substrato sociale.
Un concetto paragonabile è stato espresso anche dall’eminente filosofo italiano Emanuele Severino (E. Severino, Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano, 2012), il quale afferma che il capitalismo, per come noi lo conosciamo, si fonda su una visione assolutistica del mondo, basata su valori ormai tramontati, che porterà inevitabilmente il paradigma capitalistico ad un bivio: da una parte, se chi guida il sistema capitalistico avrà l’accortezza e la cura di percepire il cambiamento in atto nel substrato sociale, allora dovremmo assistere ad un “vero” cambiamento dell’economia capitalistica; d’altro canto, se ciò non avverrà e se il dogmatismo scientista continuerà a guidare le logiche normative, il vecchio apparato è destinato al fallimento.
In quest’ottica, il Jobs Act pare essere ancora legato ad una visione fordista dell’economia, basata su modi di produrre legati al concetto di subordinazione. L’apparato normativo che si prospetta potrà allora essere in grado di accompagnare il nostro Paese, in questi tempi di transizione tra due differenti visioni e concezioni del lavoro? Una questione fondamentale, ed una premessa necessaria, ma prima ancora la domanda che ci si deve porre, è se le norme siano in grado di guidare i cambiamenti del mercato o se invece debbano adeguarsi ad essi. Pur nella consapevolezza che questo interrogativo non potrà qui trovare compiuta risposta, per via della sua grande complessità, è opportuno porre l’accento sul fatto che un possibile superamento del dilemma può intravedersi valorizzando la relazione biunivoca tra economia e apparato normativo, i quali coesistono oggi in simbiosi l’uno con l’altro, in un sistema in cui né l’uno né l’altro sembrano svolgere un ruolo guida nei processi di cambiamento.
Le modificazioni in atto, che sono quindi di natura sociologica, politica ed economica, devono pertanto essere valutate ed analizzate necessariamente da differenti punti di vista e con gli strumenti adeguati: non è sufficiente la sola prospettiva dell’economista o del giurista, i quali possono valutare efficacemente lo scenario economico e legale solo quando questi sono relativamente stabili, o affrontano cambiamenti intrinseci ad essi; entrambe le visioni sono necessarie, perché molto più difficile è valutare l’impatto di una politica, magari a lungo termine, in una società in continuo mutamento e in un contesto produttivo che richiede nuovi metodi per continuare ad essere competitivo nel futuro; se dovessimo paragonare il Paese a una grande azienda potremmo affermare che è necessario un agente del cambiamento che faccia da guida verso una nuova cultura aziendale.
Secondo Weber (Max Weber, La scienza come professione, La politica come professione, Mondadori 2006), la figura del politico moderno nasce dalla forma della moderna divisione del lavoro, ed il suo ruolo fondamentalmente è quello di perseguire il proprio indirizzo politico, prendendo però decisioni calcolate sulla base di valutazioni tecniche, nella consapevolezza che le conseguenze di queste decisioni sono in larga parte imprevedibili: la decisione normativa è quindi per Weber sempre “in dialogo” con altre figure competenti, in grado di leggere ed analizzare il momento storico.
A proposito della consapevolezza e della lungimiranza di chi è stato in grado di cogliere i segnali della Grande Trasformazione in atto, appare fondamentale un breve passaggio citato durante l’incontro modenese, tratto dalla raccolta Marco Biagi: Un giurista progettuale e scritto ormai oltre dieci anni fa, ma ancora attualissimo: «Il mercato e l’organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità; non altrettanto avviene per la regolazione dei rapporti di lavoro […]. Il sistema regolativo dei rapporti di lavoro ancor oggi utilizzato in Italia e, seppur con diversi adattamenti, in Europa, non è più in grado di cogliere – e governare – la trasformazione in atto».
Purtroppo, essere consapevoli del substrato socio-economico in cui si opera non è condizione sufficiente allo sviluppo di politiche adeguate ed efficaci per un sistema che richiede più competitività senza rinunciare alle tutele, tuttavia sarebbe certamente un grosso errore fingersi ciechi di fronte al cambiamento in atto. Il rapporto tra organizzazione e legislazione deve allora, ora più che mai, far tesoro della dialettica tra scienza (intesa come cultura passata e analisi del presente tessuto socio-economico) e politica, e superare le logiche conflittuali dettate dall’ideologia: il conflitto tra valori, per chi progetta politiche e norme, non dovrebbe essere un ostacolo, ma il motore stesso che consente infine il superamento del conflitto per il progresso della società.
Studente del II anno di Relazioni di Lavoro,Università di Modena e Reggio Emilia
@Marco_Giustini