Quella della Franco Tosi è una storia di relazioni industriali la cui origine coincide con gli albori dell’associazionismo operaio e che oggi rischia di concludersi per l’acuirsi del dissidio sindacale. Fondata nel 1881, la Franco Tosi è tra i gioielli della prima rivoluzione industriale e tra le pioniere del settore metalmeccanico. Negli anni Settanta, la fabbrica di Legnano occupa circa 6.000 dipendenti. Dalla catena di montaggio escono le grandi turbine, che approdano oltreoceano per gli acquirenti internazionali. Ma con la fine del Novecento tramonta la stabilità aziendale in un succedersi di proprietari che culmina nel 2013, con la dichiarazione dello stato di insolvenza e l’avvio di una procedura di amministrazione straordinaria. La Franco Tosi finisce all’asta e la “giovane” (dal 1954) Bruno Presezzi di Burago Molgora acquista la storica azienda di Legnano, che conta oggi 346 maestranze.
Cominciano, così, le trattative sindacali per la gestione occupazionale e la definizione di un nuovo corso per le relazioni industriali in azienda. Il negoziato termina lo scorso 24 aprile, quando Fim e Uilm raggiungono un accordo con Alberto Presezzi, presidente dell’impresa acquirente. L’intesa prevede l’immediata assunzione di 170 lavoratori; il mantenimento di 16 dipendenti, in forza della procedura straordinaria; 15 assunzioni presso gli stabilimenti brianzoli della Bruno Presezzi; l’accompagnamento alla pensione per oltre 70 lavoratori; 40 assunzioni nell’arco di 24 mesi; e la ricollocazione del restante organico entro il 2017, previo un percorso di formazione e riqualificazione professionale.
Ma l’intesa non è il frutto di un consenso unitario e la Fiom, che ha abbandonato il tavolo negoziale, parla di un «accordo senza alcun valore», perché «toglie ai lavoratori i diritti previsti dalla legge». Tra i diritti reclamati dai metalmeccanici della Cgil ci sono le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo. L’intesa separata prevede, infatti, l’assunzione dei lavoratori mediante il contratto a tutele crescenti, con la sola eccezione del trattamento ex articolo 18 per i casi di licenziamento disciplinare.
L’accordo viene sottoposto a referendum ma 122 lavoratori, tra i 220 che partecipano al voto, si dichiarano contrari. L’intesa naufraga. E mentre la Fiom auspica la ripresa del negoziato al Ministero dello Sviluppo Economico, la Fim teme che l’alternativa al patto siglato sia chiudere la fabbrica e rimanere senza lavoro. Seguono, allora, un incontro al Mise e la redazione di una bozza di accordo, che raccoglie positivi e significativi passi avanti: tra tutti, la disponibilità dell’azienda cessionaria a presentare un piano industriale su base quinquennale e l’esclusione del periodo di prova per le assunzioni previste dall’accordo. Ma la Fiom vuole di più e chiede «di escludere il ricorso ai licenziamenti collettivi, e/o per giustificato motivo oggettivo, ed economici per tutta la durata quinquennale del piano industriale». Il negoziato torna in azienda, dove si cerca una posizione unitaria, che convinca la Bruno Presezzi a non abbandonare la Franco Tosi.
Qualunque sia l’esito della vertenza, lo scontro tra due visioni così diverse di essere e fare sindacato non può far altro che consacrare la crisi della rappresentanza nell’industria metalmeccanica. Da un lato, infatti, qualora l’ipotesi di disinvestimento dovesse concretizzarsi, i licenziamenti collettivi rivelerebbero le contraddizioni insite in una cultura sindacale, quella della Fiom, che se conforme all’etica della convinzione, contravviene inesorabile all’etica della responsabilità (G.P. Cella, Verso una destrutturazione del sistema di contrattazione collettiva?, in DLRI, 2011, n. 1), con effetti disastrosi per il destino dei lavoratori. Un esito, quest’ultimo, ulteriormente favorito dal metodo del referendum, che anziché garantire l’esigibilità contrattuale, finisce per vanificare lo sforzo di rappresentanza del sindacato, mettendo a repentaglio investimenti e stabilità occupazionale. Dall’altro, qualora al Mise si arrivasse a un’intesa migliorativa rispetto alle disposizioni dell’accordo separato, la rappresentanza ne uscirebbe ugualmente depotenziata, perché incapace di dirimere autonomamente un conflitto che nasce e si sviluppa dal basso.
Dottoressa in Scienze internazionali e diplomatiche
ADAPT Junior Research Fellow
@ilaria_armaroli