La riscrittura della disciplina dei contratti di lavoro sta già sollevando – ancor prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge – numerosi dubbi interpretativi che non poco rallenteranno il percorso di riforma del Jobs Act.
La scelta di collocare in un nuovo testo legislativo consistenti frammenti di disciplina già contenuti in precedenti leggi e decreti legislativi comporta non poche incertezze, rispetto alle interpretazioni sin qui consolidate in giurisprudenza e nella prassi amministrativa, anche là dove il Legislatore si sia semplicemente limitato a modificare poche parole che, tuttavia, possono cambiare (e di non poco) il significato di ogni singola disposizione.
Ancor più rilevante è poi il sistematico rinvio, contenuto nei blocchi di disciplina ora ricondotti al testo organico dei contratti, a una successiva decretazione ovvero alle previsioni della contrattazione collettiva. Più concretamente, quale è il reale margine di operatività delle principali tipologie contrattuali là dove decreti attuativi e contratti collettivi facciano esplicito riferimento ai testi di legge ora espressamente abrogati dal decreto legislativo di riordino dei contratti di lavoro?
L’intero impianto dell’apprendistato di cui al testo organico dei contratti, per esempio, è condizionato dalla presenza di regolamentazioni secondarie e discipline contrattuali che oggi richiamano punto per punto, salvo limitate eccezioni, il decreto legislativo n. 167 del 2011. Lo stesso per la somministrazione di lavoro a termine, la cui operatività è condizionata dalla presenza di limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi dell’utilizzatore. Diverso, per contro, è il caso dei contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, posto che il legislatore del Jobs Act ha stabilito precisi margini di operatività di detti istituti contrattuali anche in assenza di disposizioni collettive. Lo stesso vale per il contratto a termine e la somministrazione a tempo indeterminato che, in assenza di diverse previsioni contrattuali, soggiacciono a clausole di contingentamento legali pari al 20% della forza lavoro a tempo indeterminato.
Il caso è stato sollevato sulle colonne de Il Sole 24 Ore da chi ha sostenuto che «la riscrittura del job-on-call comporta lo stallo applicativo dell’istituto nei confronti di tutte quelle ipotesi oggettive elencate tra le attività discontinue della tabella allegata al regio decreto 2657/1923, secondo le previsioni della legge Biagi» (così A. Rota Porta, Contratti a chiamata in stand by, in Il Sole 24 Ore del 20 giugno 2015). Secondo questa linea interpretativa, «fino all’emanazione del provvedimento ministeriale, le fattispecie oggettive per le quali si potrà utilizzare il lavoro intermittente sono solo quelle individuate dai Ccnl: qui la cerchia è veramente ristretta. Sulla materia sono intervenuti quello degli studi professionali, quello del commercio con riferimento al marketing operativo e pochissimi altri» (ancora A. Rota Porta, Contratti a chiamata in stand by, cit.).
Invero, con specifico riferimento al lavoro intermittente o a chiamata, il problema non esiste e trova anzi facile soluzione nello stesso decreto legislativo recante la disciplina organica dei rapporti di lavoro, quantomeno con riferimento al testo in circolazione e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L’articolo 55, comma 3, del decreto legislativo dispone infatti che «sino all’emanazione dei decreti richiamati dalle disposizioni del presente decreto legislativo, trovano applicazione le regolamentazioni vigenti». Pertanto, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del decreto ministeriale 23 ottobre 2004, anche in assenza di una nuova disciplina regolamentare di attuazione del testo organico dei contratti, «è ammessa la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657».
Ad analoga conclusione, invero, si sarebbe potuto pervenire anche in assenza del chiarimento contenuto nelle disposizioni finali (capo VII) del decreto legislativo recante la disciplina organica dei rapporti di lavoro per il semplice fatto che, ragionando diversamente, larghi tratti della nuova disciplina sarebbero oggi del tutto inoperativi con grave penalizzazione non solo del sistema delle imprese ma degli stessi lavoratori. La nuova disciplina nulla prevede, in particolare, con riferimento ai numerosi rinvii alla contrattazione collettiva per l’operatività dei vari istituti contrattuali, ma nessuno dubita che si possano ancora oggi applicare, in attesa dei rinnovi, anche là dove si tratti di regolamentazioni collettive di espressa attuazione delle discipline di legge ora abrogare dal testo organico dei contratti di lavoro.
Si pensi, per esempio, all’apprendistato. L’articolo 42, comma 5, del decreto legislativo recante la disciplina organica dei rapporti di lavoro dispone che «la disciplina del contratto di apprendistato è rimessa ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nel rispetto dei seguenti principi». Pare evidente che, quantomeno in linea di principio e fatti salvi elementi di inequivocabile incompatibilità con la nuova disciplina legale, il rinvio alle regolamentazioni contrattuali di livello interconfederale o di categoria sia pieno anche là dove la contrattazione collettiva faccia formale riferimento al vecchio testo del decreto legislativo n. 167 del 2011. Uno spunto in questo senso, invero, potrebbe essere dato dall’articolo 47, comma 5, del decreto legislativo recante il testo organico dei contratti là dove si richiama per l’apprendistato la vigenza delle regolazioni vigenti «per le regioni e le province e i settori ove la disciplina di cui al presente capo non sia immediatamente operativa» (corsivo nostro). Ma il discorso non cambierebbe, a nostro avviso, anche in assenza di questo appiglio normativo nella nuova disciplina.
Torniamo, infatti, al caso del lavoro intermittente (c.d. lavoro a chiamata). Chi sostiene, a torto, lo stallo di questa tipologia contrattuale per la sola circostanza che il decreto ministeriale 23 ottobre 2004 si riferisce espressamente alla attuazione del decreto legislativo n. 276 del 2003, non ha esitato, per contro, a ritenere pur sempre possibile l’utilizzo di questa peculiare forma di contratto di lavoro nei pochi settori che lo hanno regolamentato per via contrattuale e, segnatamente, nel Ccnl degli studi professionali stante il rinvio alla contrattazione collettiva operato, ora come in passato, anche dal nuovo decreto legislativo recante il testo organico dei contratti di lavoro (A. Rota Porta, Contratti a chiamata in stand by, cit.). Ebbene, l’articolo 71 di detto contratto collettivo dispone espressamente che «per il contratto di lavoro intermittente trovano applicazione gli art. 33-40 del decreto legislativo n. 276 del 2003» di modo che, formalismo per formalismo, anche in questi casi si dovrebbe concludere per una non operatività dell’istituto (in materia cfr. P. Rausei, M. Tiraboschi, Commentario sistematico del Ccnl per i dipendenti degli studi professionali, ADAPT University Press, 2014, pp. 123-133). E così sarebbe, in questa linea di pensiero, per quasi tutti gli altri istituti contrattuali. Sempre l’articolo 71 del Ccnl degli studi professionali prevede, per esempio, che «per il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato oppure indeterminato trovano applicazione le norme di legge art. 20-28 del decreto legislativo n. 276 del 2003». Con il che una interpretazione formalistica finirebbe per paralizzare non solo larga parte della contrattazione collettiva oggi vigente (in questo caso la somministrazione di lavoro a tempo determinato nel settore degli studi professionali), ma lo stesso processo di implementazione del Jobs Act in attesa di rinnovi contrattuali che facciano espresso riferimento al nuovo testo di legge.
Ora, delle due l’una. O il rinvio alla contrattazione collettiva è di tipo sostanziale oppure è di tipo meramente formale. Una interpretazione sistematica della ratio della legge, in uno col buon senso, dovrebbero indurre alla prima delle due opzioni interpretative. E così dispone, del resto, la stessa disciplina codicistica in materia di interpretazione dei contratti (e il contratto collettivo è certamente un contratto ancorché atipico e cioè di diritto comune). Nell’interpretare il contratto si deve sempre indagare la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole (art. 1362 Codice civile) e certamente l’intenzione dei firmatari dei contratti collettivi è stata quella di rendere operativi istituti contrattuali che oggi cambiano, in linea di principio, solo la loro collocazione formale, ma non il senso sostanziale della relativa disciplina. Non solo. L’articolo 1367 del Codice civile dispone il principio di conservazione del contratto nel senso che, «nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno». Quanto basta per ritenere, a nostro avviso, la piena operatività dei rinvii contrattuali ancorché le relative discipline facciano ancora formale riferimento, in attesa dei rinnovi, ai testi di legge oggi abrogati dal nuovo decreto. E questo perché scopo della contrattazione collettiva è regolamentare in termini sostanziali le diverse tipologie contrattuali evitando vuoti normativi che finirebbero con penalizzare tanto le imprese che gli stessi lavoratori cui il contratto si applica.
Coordinatore scientifico di ADAPT