In una recente intervista, il direttore generale di Confindustria ha lanciato un preciso monito al sindacato, invitandolo ad assumere un profilo di maggior lungimiranza che porti ad una riforma del modello contrattuale che leghi maggiormente salari e produttività.
Il messaggio si è chiuso con l’affermazione: «Se non lo faranno le parti sociali interverrà il Governo». Il riferimento era legato alla preannunciata introduzione del salario minimo, che rischia di comprimere ruolo e mission delle organizzazioni che hanno monopolizzato le dinamiche contrattuali collettive nel nostro Paese dal dopoguerra in poi.
Esclusi naturalmente i diretti interessati, un intervento dell’esecutivo non viene visto come deleterio da molti attori che operano nel mondo del lavoro.
La potestà contrattuale ha portato infatti nel tempo ad una vera e propria giungla normativa, composta da contratti collettivi sempre più frazionati e sovrapposti; contratti sottoscritti in forma separata dalla stesse sigle confederali, con conseguente ulteriore nebulosità e incertezza applicativa; altri contratti che evidenziano sintomi di palese bulimia, estendendo sempre di più i propri ambiti e normando, così, in modo disarticolato attività economiche e profili professionali, senza alcun collegamento organico.
Per esperienza diretta, i consulenti del lavoro sanno che uno degli incarichi più complessi e contorti che capita di affrontare a livello professionale è rappresentato dall’impegno di presentare ad un investitore estero, interessato a sviluppare una potenziale attività in Italia, un quadro organico della contrattualistica collettiva nazionale. Tra contratti corporativi ancora vigenti, contratti di diritto comune, mancata applicazione dell’art. 39 della Costituzione, supplenza offerta dall’art. 36 sempre della Carta Costituzionale, definizione giurisprudenziale di sindacato maggiormente rappresentativo, criteri ermeneutici per l’individuazione del contratto, adesione esplicita o implicita al contratto collettivo, distinguo fra trattamento economico, normativo e/o obbligatorio nei CCNL, l’interlocutore, anche se munito delle migliori intenzioni (ad es. in materia di salari minimi garantiti, pieno rispetto della normativa legale e salario di produttività collegato ai risultati) arriverà con buona probabilità a optare per lo spostamento in un altro Paese dell’iniziativa imprenditoriale.
La valutazione preventiva, idonea a individuare se i soggetti firmatari abbiano i connotati per essere considerati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, è un’operazione ad alto rischio nei molti settori dove esiste una pluralità di contratti collettivi, anche per l’assenza di parametri certi di rappresentanza oggettiva. Un esempio recente ha riguardato il settore delle agenzie di assicurazione in gestione libera, dove una traumatica rottura delle relazioni tra lo SNA, sindacato datoriale storico e rappresentativo, e la triplice sindacale, ha portato alla firma di due accordi di rinnovo molto distanti per impianto e trattamenti riconosciuti. I due nuovi rispettivi partner, sia sindacali che datoriali, hanno il “sangue blu” a livello di rappresentanza, necessario per dare nobiltà e piena legittimità alle due nuove unioni contrattuali? Quello che è certo è che tra gli operatori regna un livello di incertezza del tutto inadeguato per dare garanzie al sistema economico e che questo meccanismo di valutazione, che viene ora attuato caso per caso e su base empirica, va cambiato.
Parte della giungla contrattuale è rappresentata dai contratti cosiddetti “pirata”, sovente frutto della parcellizzazione delle sigle sindacali e datoriali, dove gli ispiratori, soggetti spesso usciti dal circuito dei contratti collettivi principali, una volta imparato il mestiere e contando sulle ampie pieghe economiche free tax della bilateralità e dei contributi associativi, si sono ritagliati spazi di rappresentanza più o meno autoreferenziali mediante accordi collettivi spesso distanti da livelli retributivi e normativi dignitosi per i lavoratori. La decisione di non dare seguito al disposto dell’art. 39 della Costituzione da parte delle organizzazioni maggioritarie ha di fatto creato l’humus per il proliferare di situazioni oramai diffuse nel territorio, nonostante l’azione di deterrenza messa in campo a livello ministeriale.
Per finire la carrellata meritano attenzione anche alcune norme contrattuali, inserite nei CCNL, che possono meritare il titolo di “corsare”, anche se frutto di sottoscrittori di riconosciuto alto blasone sindacal/datoriale. Un esempio a caso tra i tanti è rappresentato dal recente accordo di rinnovo del CCNL del settore Commercio. Probabilmente perché il tavolo era come noto orfano della grande distribuzione organizzata, che fungeva da freno rispetto ad alcuni appetiti economici, nel testo si stabilisce che i contributi di assistenza contrattuale, previsti a livello di statuto dai soggetti firmatari, sarebbero a carico di tutti i datori di lavoro, aderenti o meno, che applicano di fatto il contratto collettivo, in quanto presunta parte integrante del trattamento economico e normativo. Visto chi sono i veri destinatari dei fondi appare invero quanto meno originale far passare per retribuzione gli incassi delle organizzazioni.
In un contesto come quello rappresentato, un intervento del Governo sui salari minimi sarebbe per molti versi salutare per fare pulizia di alcune delle situazioni in cui il sistema è degenerato, e per dare al contempo uno stimolo forte al cambiamento.
Spetterà poi agli attori sociali migliori farsi carico del ruolo di mostrare la visione, la capacità di innovazione e anche le doti di trasparenza necessarie per costruire un nuovo modello contrattuale in linea con i tempi, accompagnato dalla contestuale riscrittura dei testi, composti ad oggi da disposizioni spesso obsolete, se non addirittura in contrasto con le norme legali.
Antonio Stella
Vice presidente ANCL-UP Vicenza