Detenuti 2.0 attraverso il lavoro: il carcere di Padova e l’impegno della Cooperativa sociale Giotto

Non scholae, sed vitae discimus è un motto latino che significa Non impariamo per la scuola, ma per la vita. Esattamente questo l’intento che ha animato il gruppo di studenti della facoltà di economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia e di dottorandi in Formazione della persona e mercato del lavoro dell’Università di Bergamo nella recente visita alla casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Non adempiere ad uno dei tanti impegni accademici, ma scoprire con i propri occhi cosa accade quando nella vita si sbaglia e si trova la forza di recuperare ai propri errori percorrendo la retta via, quella che è alla base di ogni società, ovvero quella del lavoro.

 

Visitare un carcere non è una gita e lascia generalmente una sensazione di vuoto, quell’amarezza di fondo che sa di vite spezzate, di storie di abbandono, di emarginazione sociale. Ma davanti al piccolo miracolo compiuto dalla Cooperativa sociale Giotto inserita nel carcere di Padova dal 1991 e che impiega circa 140 degli 800 detenuti ospitati in attività lavorative qualificate quali l’alta pasticceria e la gestione di call center, fino all’assemblaggio delle valige Roncato e alla fabbricazione di oltre 200 biciclette al giorno, a cui si aggiungono la produzione di business key e un servizio di digitalizzazione di documenti cartacei, affiora invece un sottile e vibrante sentimento di speranza. Perché la luce gettata da questa impresa sociale sul tema del lavoro in carcere e sul rapporto tra pena e rieducazione, nonché sulla possibilità di coniugare impegno sociale e imprenditorialità, sarà destinata a riflettersi sulle scelte – complesse perché fortemente impregnate di valori morali – che il legislatore adotterà in futuro al fine di riformare il sistema penitenziario.

 

Il lavoro penitenziario, in effetti, coinvolge problematiche trasversali, strette tra i due estremi dell’etica, da un lato, e della legiferazione ordinamentale, dall’altro. Aldilà della portata programmatica la dimensione etica e umana di cui è intriso l’articolo 27 della Costituzione, trapela in quella vivida enunciazione secondo cui, in caso di condanna, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Se si volesse leggere l’inciso costituzionale con gli occhi dei lavoratori detenuti a Padova, in effetti, la parola “rieducazione” sembrerebbe aver trovato pieno compimento: costituzionale, etico, sociale. E darebbe testimonianza di come, quando si decide di declinare la rieducazione in lavoro, è possibile la rinascita di chi, una volta messo al mondo, vive per come e dove può, finendo un giorno per sbagliare. E che in carcere, per la prima volta, trova di fronte a sé la sua dignità: quella data dal lavoro, libero ma imprigionato, garante di un’appartenenza ultrapersonale, sociale, ugualitaria.

 

Sebbene nell’Ordinamento penitenziario, il lavoro venga considerato quale uno strumento di reinserimento sociale, in Italia non è ancora diffuso né strutturato come dovrebbe. Eppure, gli effetti positivi sarebbero molteplici: l’abbandono della tentazione della recidiva, il miglioramento della qualità della vita all’interno del carcere; la maturazione di un indole personale più incline alla risocializzazione; un salario congruo e regolare; l’accrescimento di competenze professionali e tecniche da poter riutilizzare una volta scontata la pena. Con tutti gli annessi benefici di spesa a favore delle casse dello Stato, in termini di alleggerimento dei costi di mantenimento dei detenuti e dell’amministrazione penitenziaria. Non si tratta di fantascienza, ma di oggettività. Peraltro, colpiscono al cuore le parole dei detenuti di Padova mentre raccontano con orgoglio l’importanza di avere una busta paga e un reddito con cui poter aiutare la propria famiglia. Lavorare per garantire un futuro ai propri figli, senza elemosinare qualche euro da spendere in carcere e senza far si che le colpe dei padri ricadano sui figli. Piccole cose, che sono in realtà grandi cose e che infondono al carcerato la voglia di ricominciare.

 

Già nel 1764, Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, riconosceva alla pena una duplice funzione, una general-preventiva, connessa alla necessità della repressione dei comportamenti dannosi per la sicurezza sociale; l’altra rieducativa, finalizzata alla risocializzazione del condannato.

Siamo nel 2015 e dare una chance ad un detenuto attraverso il lavoro, appare ancora una sfida difficile da vincere. Trasmettere ad un ergastolano la consapevolezza che mettersi in gioco e guadagnarsi da vivere con le proprie capacità e con il proprio talento è meglio che attraverso una rapina, è difficile. Implica un percorso fatto anche di sofferenza per un recluso, che magari mette più coraggio nell’impugnare una pistola piuttosto che nel fare i conti con il proprio passato e con il proprio futuro. Difficile, ma non impossibile. Come impossibile non è costruire la cultura sociale del recupero dei condannati. A Padova l’esperimento è riuscito e tutti i carceri dovrebbero adottarne l’impostazione e la filosofia della Cooperativa Giotto. Certo, occorrono anche strumenti legislativi e incentivi di tipo economico. Ma anche una forte elasticità mentale, una coscienza sociale libera da pregiudizi e aperta all’idea di un detenuto 2.0. Solo quando il detenuto non sarà visto solo come un pericoloso rifiuto della società da abbattere ma come persona da riscattare e migliorare seppure attraverso la pena, questa sfida sarà vinta.

 

Francesco Piacentini

Serena Santagata @Serena_Santa

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

 

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