Il 20 aprile i metalmeccanici sciopereranno per quattro ore nell’ambito della vertenza per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro (ccnl).
È la prima astensione unitaria dopo 8 anni. Il numero 8 è scaramantico per questa gloriosa categoria (anche se, in effetti, le glorie appartengono tutte al passato), tanto da aver caratterizzato un’altra fase importante nella sua storia: di 8 anni fu l’arco temporale intercorso tra il contratto del 1948 e il suo rinnovo avvenuto soltanto nel 1956 (dopo l’accordo interconfederale sul c.d. conglobamento), che mandò il segnale di una pur timida ripresa sindacale dopo tanti anni di crisi e di profondi contrasti tra le organizzazioni. In vista dell’azione di lotta (fisiologica in un’ordinaria vertenza contrattuale), i dirigenti sindacali stanno percorrendo il Paese in lungo e in largo per rinserrare le fila, attraverso assemblee ed attivi unitari, allo scopo evidente di assicurarsi un esito positivo dello sciopero.
La situazione propone dunque agli osservatori una prima domanda: la Federmeccanica è riuscita ad unificare delle organizzazioni sindacali divise non solo per quanto riguarda le piattaforme rivendicative, ma anche le linee di condotta nelle principali sfide dell’ultimo decennio? I fatti (ovvero la dichiarazione di sciopero dopo mesi di trattative inconcludenti) starebbero a dimostrare di sì. L’organizzazione degli imprenditori metalmeccanici ha sicuramente risentito gli effetti da ‘’terra di nessuno’’ derivanti dai cambi al vertice della Confindustria. Giorgio Squinzi aveva certamente autorizzato l’accordo di rinnovo dei chimici (ancora imperniato sulla centralità del contratto nazionale); non fino al punto, però, di poterne fare l’orientamento generale dell’associazione di Viale dell’Astronomia (alcuni ambienti confindustriali non hanno ‘’visto bene’’ quell’intesa).
La Federmeccanica, allora, è rimasta abbarbicata alla sua piattaforma iniziale, senza riuscire ad esprimere (o senza volere ?) un minimo di dialettica negoziale. Così, il fronte sindacale non è potuto fare altro che reagire compatto (tenendo insieme le rivendicazioni di ciascuna sigla), comprese quelle federazioni che avrebbero avuto una maggiore disponibilità al dialogo. Ma che cosa succederà nel momento in cui la Federmeccanica, al tavolo del negoziato, promuoverà qualche iniziativa di apertura? Non è un caso che i leader della Fim e della Uilm abbiano voluto giustificare l’adesione allo sciopero motivandola come un’inevitabile risposta all’inerzia della controparte, piuttosto che – lo ha fatto la Fiom – come reazione alle inaccettabili proposte di merito dei ‘’padroni’’. I leader dei metalmeccanici della Cisl e della Uil, infatti, ci tengono a ribadire, in ogni possibile occasione, che non tutti i sindacati sono uguali. Un giovane sindacalista emergente – il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli – ha addirittura pubblicato una lettera aperta al premier/segretario – dopo il suo infelice paragone tra Sergio Marchionne e i sindacati – chiedendogli di ‘’rottamare’’ le generalizzazioni. Il fatto è che, nella vertenza dei metalmeccanici, la discrepanza tra le posizioni delle diverse parti sociali è evidente; e non solo sul piano pratico, ma anche su quello culturale.
La Federmeccanica, nella sua piattaforma, ha espresso una visione del futuro delle relazioni industriali, indicando un modello innovativo e in grado di fornire una risposta (condivisibile o meno, ma coerente) alla crisi del sistema definito nel Protocollo del 1993 (che poi consisteva in una razionalizzazione della struttura contrattuale ereditata dagli anni ’60) e ai temi emergenti nel dibattito (a partire dalla individuazione di un ruolo, nel contesto più generale, del c.d. salario minimo).
I sindacati non sono stati capaci di fare altrettanto. Questo è il loro problema; e segnerà la loro sconfitta. Il loro modello è, più o meno, quello di cinquant’anni fa, quando ad innovare il sistema furono proprio i sindacati metalmeccanici. Nel 1963, prima, con la conquista di un rinvio alla contrattazione articolata di alcune materie relative alle condizioni sul posto di lavoro (i prodromi della svolta erano già in vista negli anni immediatamente precedenti). Poi, nel 1969 – durante il c.d. autunno caldo – le federazioni dei metalmeccanici sbaragliarono il tentativo confindustriale di imbrigliare nuovamente la contrattazione decentrata. In questi decisivi passaggi le tute blu “fecero scuola”, nel senso che le loro conquiste orientarono l’evoluzione della contrattazione collettiva in tutti i settori, compresi quelli dell’impiego pubblico. Lo stesso avvenne per quanto riguarda gli organismi di rappresentanza sindacale nei posti di lavoro. Poi, all’inizio degli anni ’70, Fim, Fiom e Uilm inventarono e realizzarono il c.d. inquadramento unico, ristrutturando e riorganizzando la classificazione del personale (purtroppo, oggi, sono ancora fermi a quell’impianto ormai superato) nonché l’esperienza delle 150 ore che contribuì a diffondere il livello legale di scolarizzazione tra coorti di lavoratori che ne erano privi. Anche queste esperienze si diffusero, attraverso la contrattazione, all’interno del mondo del lavoro. Negli anni ’80 i sindacati vennero presi in contropiede quando si pose il problema di combattere l’inflazione anche attraverso il superamento di politiche retributive – come gli automatismi in relazione all’andamento del costo della vita – che finivano per consolidarne gli effetti. Tuttavia, almeno una parte del movimento sindacale seppe essere all’altezza di quella sfida ed interagire con il governo, fino a quando, nel 1993, con l’accordo del luglio, si arrivò a definire unitariamente un modello di contrattazione in cui era affidato un ruolo specifico a ciascun livello negoziale.
Ora però c’è la necessità di andare oltre, grazie anche ad un quadro normativo e finanziario rivolto a favorire la contrattazione di prossimità (ci riferiamo alla possibilità di deroghe di cui all’articolo 8 della legge n. 148 del 2011 e ai benefici fiscali riconosciuti alla contrattazione decentrata in materia di produttività e welfare aziendale). I sindacati – al pari del naufrago descritto dal Manzoni – stentano a mollare gli appigli precari a cui sono attaccati per afferrarne di più sicuri. Per loro resta fondamentale il ruolo del contratto nazionale, anche a costo di doversi inventare una nuova funzione da attribuirgli una volta che ha smarrito quelle tradizionali.
La Federmeccanica questo ruolo lo ha individuato (garantire una sorta di salario minimo, variabile nel tempo, a chi ne è al disotto, lasciando ampi spazi, invece, alla contrattazione decentrata). E i sindacati ? Dal canto loro le Confederazioni hanno addirittura formulato delle proposte che, grazie all’attuazione dell’articolo 39 Cost., conferirebbero efficacia erga omnes (ovvero valore di legge) al contratto nazionale di categoria, perpetuandone, di conseguenza, il ruolo e la centralità.
Membro del Comitato scientifico di ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus