Il tasso di disoccupazione giovanile italiano (15-24 anni) è del 37,9%, uno dei più alti d’Europa, i NEET sono 2,3 milioni, gli anziani italiani con più di 65 anni sono 13 milioni, più di un quinto della popolazione italiana, i pensionati nel 2014 erano 16,3 milioni.
Bastano questi dati per mostrare chiaramente come le condizioni attuali di giovani e pensionati suscitino, per ragioni diverse, legittime preoccupazioni. La tentazione a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi è quella di cogliere due piccioni con una fava, convinti scientificamente del nesso causale tra il pensionamento di un lavoratore anziano e l’assunzione di un giovane, la c.d. staffetta generazionale.
Ma siamo sicuri che il pre-pensionamento favorisca l’occupazione giovanile? Da quando il fordismo non è più il modello industriale e socio-economico, è difficile immaginare il ricambio generazionale automatico, degli organici: il mercato del lavoro non funziona più come in passato in cui la necessità di riempire il posto di lavoro lasciato vuoto dall’anziano equivaleva a un’occasione lavorativa per il giovane. Nella nuova staffetta generazionale non esiste più questo passaggio di testimone, per diversi motivi.
In primo luogo le esigenze delle imprese in termini di risorse umane sono molto più soggette ai brevi cicli di vita dei prodotti, e non è detto che la necessità di avere 10 persone nel 2000 implichi averne 10 anche nel 2016. Oltre a ciò si aggiunga il forte impatto dell’automazione e della digitalizzazione delle imprese, per cui spesso le professionalità proprie dei lavoratori più anziane, caratterizzate magari dalle cosiddette competenze routinarie, possono essere sostituite da macchinari per i quali l’investimento è velocemente coperto dal risparmio sul costo del personale. In ultimo, ma si potrebbero aggiungere molti altri motivi, in Italia abbiamo un tasso di occupazione over 55 più basso di molti paesi d’Europa, gli stessi paesi che hanno una disoccupazione giovanile molto inferiore alla nostra. Un basso tasso di occupazione significa meno consumi, economia più stagnante, e quindi meno lavoro. Difficile quindi pensare che la soluzione sia quella di ridurre ulteriormente i tassi di occupazione degli anziani.
La crescita dell’occupazione giovanile dipende invece da vere politiche attive, formazione, orientamento, centri per l’impiego funzionanti, che, insieme a politiche industriali che possano ridare competitività al nostro paese e alla produttività del lavoro, aiutino l’incontro alla luce del sole tra domanda e offerta di lavoro. Non meno persone al lavoro quindi, ma molte di più.
Tuttavia, nel Paese in queste settimane, Sindacati, Governo, Presidente dell’Inps sembra non comprendano la trasformazione in atto del mercato del lavoro e si siano lasciati sedurre dall’utopia del prepensionamento come leva per l’occupazione giovanile. Il 2 aprile i sindacati sono scesi in piazza per “cambiare le pensioni e dare lavoro ai giovani”. Il 14 aprile, il Ministro Poletti ha firmato il decreto per il “part-time agevolato” che punta a promuovere il principio dell’invecchiamento attivo. Oggi si pensa ad un prestito bancario per favorire il pre-pensionamento, facendolo coprire agli stessi neo (guardando l’Europa possiamo dirlo senza timori) baby pensionati, in quello che sembra un goffo arrampicamento sugli specchi per convincere l’opinione pubblico di tutto quello che gli economisti stessi sostengono. Il terrorismo psicologico sui possibili pensionati a 75 anni non deve far chiudere gli occhi sul fatto che l’età pensionabile italiana oggi è semplicemente conforme agli standard degli altri paesi.
È infatti curioso notare come la constatazione che l’aumento dell’occupazione giovanile passi da una riduzione del dualismo sul mercato del lavoro, della pressione fiscale e per un aumento della produttività fosse sostenuto nel 2013, dall’accademico Tito Boeri. (Boeri T., Galasso V., Per una vera staffetta tra generazioni).
Non sarà quindi una politica di pre-pensionamento che darà lavoro ai giovani, ma al contrario è necessaria la costruzione di un welfare legato alla persona – quantunque essa sia giovane o anziana – che privilegi, in luogo del sostegno monetario, interventi che promuovano l’employability e la crescita. Occorre iniziare a sciogliere i lacci mentali delle professioni, per i quali se un muratore a 60 anni non può stare su una impalcatura ciò implica un suo pensionamento. Non potrebbe essere un maestro in scuole edili? Usare tutta la sua esperienza empirica per aiutare i giovani ad apprendere un mestiere? E questo è solo un esempio.
Un tale sistema di welfare pone una sfida a vocazione universale, perchè garantisce la sostenibilità a tutte le persone, in tutte le fasi della vita e si estende ai temi del benessere, della salute, della previdenza e dell’apprendimento continuo. Si tratta di una riforma che va alla radice delle logiche del welfare attuale, che implica sconvolgimenti, sacrifici iniziali, ma che dobbiamo iniziare a pensare seriamente, per non ritrovarci ogni anno con il consueto mese di discussione sui temi previdenziali, che di certo riesce ad accumunare giovani e pensionati in qualcosa: la noia.
Maddalena Saccaggi
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@msaccaggi