Tra i tanti dossier che si troverà sul tavolo il neo-Ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda, uno è più impolverato degli altri: quello su Industry 4.0. Più volte annunciata, con notizie di imminenti presentazioni di un piano italiano per la manifattura digitale, la strategia del governo resta ancora ignota al grande pubblico, così come agli investitori internazionali. Investitori ancora più interessati a questo nuovo modello produttivo, ormai identificato intorno al brand tedesco di Industrie 4.0, dopo che qualche settimana fa la Commissione Europea ha annunciato un pacchetto di investimenti di 50 miliardi per la digitalizzazione dell’industria europea.
Ormai oltre un anno fa Roland Berger è stata assoldata dal MISE per elaborare un report dal titolo “Industry 4.0. La via italiana per la competitività del manifatturiero”, documento mai diffuso ma che siamo in grado di anticipare in alcuni aspetti. In primo luogo, come detto, si spinge per uno stimolo degli investimenti, specialmente quelli in ricerca e sviluppo, attraverso strumenti (ammortamento, credito d’imposta, cooperative compliance) che li rendano vantaggiosi. Si punta poi a favorire la complementarietà tra le industrie consolidate e le nuove start up innovative che si basano su tecnologie avanzate. C’è poi il capitolo infrastrutture, affrontato sia dal punto di vista della loro costruzione e ammodernamento, sia da quello di garantire livelli di cybersecurity tali da poter gestire in sicurezza miliardi di dati quotidianamente. In ultimo una attenzione allo sviluppo di nuove competenze necessarie alla manifattura digitale, grazie al potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro e della riqualificazione del personale già formato.
Non è dato sapere oggi se queste linee guida non siano state diffuse per ritardi tecnici o per un cambio di strategia. Quello che emerge oggi è la mancanza di una visione italiana di questo fenomeno. Il fatto di appoggiarsi a una società di consulenza che ha contribuito a costruire la leadership tedesca sul tema, invece che guardare anche a chi nel nostro Paese (ad esempio Federmeccanica e FIM-CISL) sta da tempo studiando la realtà del fenomeno, è sintomo della difficoltà nel costruire una vera strada italiana. La mancanza di visione emerge soprattutto dall’assenza di un approccio olistico al fenomeno, con il grave rischio di copiare parti di strategia dall’estero senza costruire un modello originale. Questo si deduce soprattutto dall’attenzione quasi unicamente focalizzata sugli investimenti e poco sull’impatto disruptive che l’evoluzione verso il nuovo modello può avere. Il fronte dell’organizzazione del lavoro è delle relazioni industriali strettamente connesso ad un modello di business che andrà sempre di più verso una personalizzazione dei prodotti e una produzione estremamente flessibile. Ragionare di investimenti senza considerare come adattare l’organizzazione dei modelli produttivi, allargando le maglie di una regolazione del lavoro rigida e poco flessibili nelle modalità di esecuzione della prestazione, ampliando la diffusione della contrattazione aziendale o costruendo percorsi di apprendistato per profili alti, serve a ben poco.
Non a caso il modello tedesco si basa proprio sulla rete tra imprese, istituzioni e enti di ricerca. La Fondazione Fraunhofer, lautamente finanziata dal governo, si occupa di aiutare le imprese a modernizzare le loro organizzazioni e strutture in modo da poter innovare verso la manifattura digitale. In Italia il mondo della ricerca e quello dell’impresa si trovano ancora molto distanti, basti pensare che il ruolo del ricercatore nell’azienda privata oggi è pressoché inesistente, e le logiche del dottorato industriale sono oggi quasi totalmente accademiche, lontane dai tessuti produttivi. Si tratta di nodi profondi, che vanno all’origine di un sistema, ma che appare necessario sciogliere per poter arare un terreno nel quale gli investimenti possano crescere e non marcire.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
@francescoseghez