Premessa: cronicità e disabilità
Il dibattito sulle patologie croniche si sta facendo sempre più approfondito, sia a livello internazionale che nazionale (Cfr. M. Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, a cura di M. Tiraboschi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n. 36/2015 con ampi riferimenti alla bibliografia e agli studi più recenti sul tema; S. Varva (a cura di), Malattie croniche e lavoro: una rassegna ragionata della letteratura di riferimento, ADAPT University Press, 2014).
Sono condivisibili le riflessioni circa l’inadeguatezza dell’attuale sistema di Welfare, a fronte dell’innalzamento dell’aspettativa di vita delle persone, che determinerà sicuramente un progressivo aumento della domanda di servizi sanitari e delle prestazioni sociali. Altrettanto immaginabile è l’ulteriore irrigidimento dei parametri di accesso ai trattamenti pensionistici e assistenziali che impongono, ed imporranno sempre più in futuro, alle persone di prolungare il periodo della loro attività lavorativa.
Il tema della salute è di rilevanza essenziale per tutti gli esseri umani, senza distinzione di età. Sono, infatti, numerosissime le patologie croniche congenite (presenti alla nascita) e quelle che compaiono durante i primi decenni di vita. Esse determinano non pochi problemi, in termini di affermazione dei diritti, già nella fase di inclusione scolastica, nella formazione, nella riqualificazione professionale e – non ultimo – nell’inserimento nel mercato del lavoro e nello svolgimento dell’attività lavorativa.
Almeno da un paio di decenni le Istituzioni comunitarie sottolineano la necessità di affrontare la questione dell’accesso ai diritti sociali attraverso una strategia integrata in grado di offrire una garanzia di riduzione reale delle forme di discriminazione e di disuguaglianza sociale: più misure associate che si completino e si rafforzino vicendevolmente nei settori dell’occupazione, dell’educazione, della sanità, della previdenza sociale, ma anche della mobilità, della comunicazione ecc. Il tutto per rimettere al centro delle politiche la persona, come “essere umano” e come “risorsa”.
Il rispetto dei diritti umani e l’accesso ai diritti economici e sociali sono i due presupposti indispensabili per lo sviluppo, la coesione sociale, la non discriminazione, le pari opportunità. Sono essenziali per garantire stabilità sociale, economica e politica.
Un mercato del lavoro inclusivo, in particolare, è ovviamente una precondizione di inclusione sociale, perché l’occupazione è fonte di reddito e canale di partecipazione attiva alla vita sociale ed economica per tutte le persone.
In taluni principi espressi dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con Legge 18/2009, sono indicati spunti importanti a favore degli aspetti della conciliazione tra lavoro e cura.
Nella Convenzione è indicato chiaramente il concetto di disabilità, considerato non un tratto caratterizzante della persona, ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali sono create dall’ambiente sociale: vengono definite “persone con disabilità” tutte coloro che “hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri” (art. 1, comma 2).
Se si agisce anche sull’ambiente sociale, avvalendosi degli “accomodamenti ragionevoli”, molte più persone potranno inserirsi nel mercato del lavoro e conservare la propria occupazione.
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La citata Convenzione ONU considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art.2). Un richiamo agli accomodamenti ragionevoli è previsto anche nell’art. 27, lett. I) per cui gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro per tutti, prendendo appropriate iniziative – comprese le misure legislative – “in particolare al fine di garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro”.
Già nell’art. 5 della Direttiva 2000/78/Ce, (recante un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) è stabilito che “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previsti accomodamenti ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore delle persone con disabilità”.
Il tenore dell’articolo è decisamente generico e, a tratti, “ambiguo”. Un suggerimento importante per cercare di chiarire meglio il significato e la portata degli “accomodamenti ragionevoli” si è tratto dai “considerando n. 20 e n. 21” del preambolo della direttiva secondo cui “è opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento”; “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Il recepimento dell’art. 5 della Direttiva da parte degli Stati membri non è stato uniforme, in tutti i casi è alquanto astratto. Non a caso vi sono già alcune sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: in particolare la sentenza della Corte (seconda Sezione) dell’11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, con cui i giudici si sono pronunciati su un dubbio interpretativo derivante dalla normativa danese relativo all’estensione della nozione, non solo ai profili di accessibilità fisica dei luoghi di lavoro ma, più in generale, di compatibilità dell’ambiente di lavoro con le funzionalità della persona.
I giudici lussemburghesi hanno chiarito che:
1) La nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata. La natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione.
2) L’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo. Spetta al giudice nazionale valutare se, nelle circostanze dei procedimenti principali, la riduzione dell’orario di lavoro quale provvedimento di adattamento rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.
Nel nostro paese, solo dopo la condanna da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cfr. causa C-312/11, Commissione contro Repubblica Italiana), è stato introdotto l’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 [con il d.l. n. 76/2013 (conv. l. n. 98/2013)] il quale dispone che: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
Nel procedimento giudiziario che ha visto condannata l’Italia è stata respinta la tesi prospettata dalla difesa italiana (ved. punto 55 della motivazione della sentenza) secondo cui l’applicazione dell’art. 5 della direttiva non può basarsi su un’unica modalità, fondata sugli obblighi imposti ai datori di lavoro, ma deve avvenire anche mediante la predisposizione di un sistema pubblico e privato atto ad affiancare il datore e la persone con disabilità (un sistema di promozione dell’inclusione che sarebbe già in parte previsto dalla Legge 68/99, dalla legge 104/1992, dal T. U. 81/2008 e dalla normativa su cooperative e imprese sociali). Per la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, invece, per trasporre correttamente e completamente l’art. 5, letto alla luce dei considerando 20 e 21 (richiamati al punto 60 della motivazione), non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano ad essi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione.
Oltre alla normativa contro le discriminazioni, sono stati inseriti numerosi riferimenti agli accomodamenti ragionevoli nella legge sul collocamento mirato: le Regioni, attraverso il Fondo regionale per l’occupazione delle persone con disabilità, dovranno finanziare le spese di adeguamento delle postazioni di lavoro di coloro che presentano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50% compreso; la rimozione delle barriere architettoniche; l’istituzione di un responsabile dell’inserimento lavorativo; l’apprestamento di tecnologie di telelavoro.
Non è questa l’occasione per esaminare le modifiche apportate alla Legge 68/99. Un’osservazione per tutte è però necessaria perché non si può giudicare positivamente l’inserimento del “limite della riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%”: esso rappresenta un elemento di discriminazione di non poco conto che costituisce un retaggio culturale e normativo lontano dall’ICF (ovvero dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute). Non averne ancora imposto l’utilizzo generalizzato (ricordiamo che è un linguaggio unificato e standard di riferimento per la descrizione della salute e degli stati ad essa correlati) e voler restare ancorati a percentuali che poco rappresentano la funzionalità e le capacità delle persone, fa comprendere come vi sia ancora molto da fare su questo versante.
Tutta la normativa citata richiede sicuramente provvedimenti interpretativi ed esplicativi circa il significato da attribuire ai termini “reasonable accomodation”, al fine di poter adottare soluzioni realmente utili per le persone e non limitarsi a fornire dei meri risarcimenti del danno non patrimoniale in caso di discriminazione. Si tratta di passaggi essenziali considerato che nel nostro ordinamento gli obblighi datoriali sono sempre stati ricondotti – fino ad oggi – alla categoria civilistica della “cooperazione all’adempimento”, in virtù dei principi di buona fede e correttezza, richiedendo al datore di lavoro solo modificazioni della postazione o dei mutamenti di mansioni, senza far riferimento alcuno all’organizzazione aziendale.
Stante l’onere della prova in capo al datore di lavoro sarà essenziale formare organismi competenti e procedure sul modello di altri paese come gli Stati Uniti e il Regno Unito dove non vi sono solo previsioni di legge (The Americans with Disabilities Act 1990 e il UK Equality Act 2010), ma sono stati creati specifici enti volti ad attuare concretamente tali disposizioni [ad esempio negli Stati Uniti l’U.S. Equal Employment Opportunity Commission-ADA (EEOC)e il Job Accommodation Network (JAN); nel Regno Unito The Equality and Human Rights Commission (EHRC)].
Restano da sciogliere taluni nodi applicativi evidenziati anche nel rapporto 2016 dell’European network of legal experts in gender equality and non-discrimination della Commissione Europea (“Reasonable accommodation for disabled people in employment contexts. A legal analysis of EU Member States, Iceland, Liechtenstein and Norway”, in Boll. ADAPT, 11 aprile 2016, n. 12).
Primo aspetto di non poco conto da chiarire è quello del momento in cui sorge l’obbligo in capo al datore di lavoro di conoscere la necessità di adottare un accomodamento ragionevole.
In alcuni Stati membri (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Francia, Irlanda, Norvegia, Portogallo, Svezia e Regno Unito) il dovere di fornire soluzioni ragionevoli sembra sorgere quando il datore di lavoro sa o dovrebbe sapere dell’esistenza della “disabilità”. Quindi, quando la disabilità è evidente, il datore di lavoro è immediatamente soggetto all’obbligo, ma è poco chiaro comprendere i casi in cui “avrebbe dovuto sapere” vista l’esistenza della normativa sulla privacy e quella sulle visite mediche e/o di idoneità.
In Estonia l’obbligo sorge solo quando perviene al datore di lavoro un certificato medico. In Bulgaria e Lussemburgo, il dovere sorge quando il datore di lavoro è informato dai servizi sanitari o delle autorità pubbliche circa la situazione di salute e la necessità di adottare delle soluzioni ragionevoli.
In altri paesi come Cipro, Paesi Bassi, Polonia e Spagna è richiesta la comunicazione da parte del soggetto interessato.
In Italia nulla è disposto in merito. Il Decreto Legislativo n. 81/2008 (recante Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro il T.U. 81 del 2008) ha delineato un sistema in cui l’azione del datore di lavoro non deve risolversi in interventi episodici e frammentari, ma in un sistema di gestione permanente ed organico diretto all’individuazione, riduzione e controllo costante dei fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il ruolo del medico competente nell’ambito dell’individuazione di accomodamenti ragionevoli, in collaborazione con altri professionisti (quali ad esempio architetti, ingegneri informatici e biomedici), è ancora tutto da definire ed approfondire.
Quanto ad eventuali limiti circa l’obbligo di adozione degli accomodamenti ragionevoli il nostro Paese si distingue dagli altri per aver inserito una disposizione di tutto vantaggio per la Pubblica Amministrazione (che peraltro potrà vederci nuovamente condannati dalle Istituzioni comunitarie) considerato che qualsiasi iniziativa non dovrà prevedere nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
L’unico spiraglio – per il momento – è previsto nell’articolo 17 (1) lett. z) della legge delega 124/2015 (sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione) il quale stabilisce che, “al fine di garantire l’effettiva integrazione nel mondo del lavoro delle persone con disabilità” le pubbliche amministrazioni con più di 200 dipendenti nominano, senza oneri nuovi o maggiori sulla finanza pubblica e delle risorse umane, entro i limiti finanziari e materiali previsti nella legislazione corrente, un responsabile dei processi di integrazione”.
Conclusioni
Nella pratica, sempre riferendoci alle esperienze ormai consolidate di altri Paesi, gli accomodamenti ragionevoli rappresentano molto spesso delle soluzioni di “buon senso”, tutt’altro che dispendiose: l’apposizione di strisce luminose nelle vetrate e/o di strisce antiscivolo nei gradini di marmo; l’utilizzo di hardware e/o software specifici; l’applicazione degli aspetti ergonomici della postazione, degli strumenti, degli aspetti psico-sociali (cfr. http://www.leas.unina.it/download/Manuale_Raccomandazioni_Ergo.pdf).
Nel caso statunitense, il Job Accommodation Network fornisce tutta una serie di informazioni e feed-back che si possono trovare facendo la ricerca per patologia (peraltro descritte in modo molto chiaro, per non esperti) o rispetto all’arto/organo di cui è compromessa la funzionalità. Si tratta di una banca dati formata in ottica multidisciplinare che è in continuo aggiornamento e che meriterebbe di essere presa ad esempio dall’Italia dove alle persone – nell’inserimento nel mercato del lavoro e nel mantenimento dell’occupazione – interessano tempestività e concretezza.
ADAPT Professional Fellow
@silvia_bruzzone