«Chiudo con un suo pensiero, ripreso ieri sulle pagine del Quotidiano Nazionale dal suo amico Giuliano Cazzola: “L’uguaglianza, la libertà, la democrazia, lo sviluppo, la conoscenza, la giustizia, la salute, la pace sono i valori che contano nel progresso umano e che non dobbiamo solo lasciare all’ideologia, ma viverli quotidianamente”. Il suo ricordo acquista oggi il sapore di una lezione che non possiamo dimenticare».
Con queste parole, il presidente del Senato Pietro Grasso, ha terminato il suo intervento durante la cerimonia che si è svolta lo scorso 31 maggio, a Palazzo Madama alla presenza del Capo dello Stato, per celebrare il ventennale della morte di Luciano Lama. Essere citato dal Presidente del Senato – per un articolo che avevo scritto in memoria del grande leader sindacale – mi ha piacevolmente sorpreso, in particolare per un fatto preciso: essere definito il “suo amico”.
Per me è stato come il riconoscimento di una decorazione o il rilascio di una patente. Ho conosciuto Lama, ho nutrito per decenni nei suoi confronti sentimenti di ammirazione e devozione, ma anche di ciò che una volta si chiamava “timore reverenziale”; credo che Luciano mi ricambiasse con stima e simpatia, come mi ha dimostrato in diverse occasioni. Ma non avrei mai osato definirmi “suo amico”. Solo personaggi come Giorgio Napolitano sono autorizzati a farlo (e così ha definito Lama nella sua commemorazione il Presidente emerito della Repubblica) perché bisogna appartenere a quel mondo di leader d’altri tempi per evocare rapporti di amicizia che, in qualche modo, rendono testimonianza anche di una condizione di confidenza e di parità.
Da solo, io non mi sarei mai definito “amico” di Lama (anche se in realtà mi sono sempre considerato tale) perché se lo avessi fatto, il mio sarebbe stato un atto di presunzione: non si entra di nascosto nella storia. Ecco perché le parole di Grasso mi hanno conferito uno status, legittimandomi, adesso, a snodare il filone dei ricordi che mi legano a Luciano nel corso di una parte – certo, la più importante e la più formativa – della vita: l’esperienza sindacale, trascorsa in mezzo a dei “giganti” come Agostino Novella, Fernando Santi, Piero Boni, Bruno Trentin, Agostino Marianetti, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto, Giuseppe Caleffi e tanti altri. Da ognuno di essi ho imparato ad essere quello che sono stato e sono. Ma Luciano Lama lo ho amato come un padre. È con lui che ho avuto quell’incontro sulla via di Damasco che cambia l’esistenza delle persone.
Il primo incontro
Erano i primi anni sessanta (forse il 1962). Io, studente di giurisprudenza, stavo preparando l’esame di diritto del lavoro. Seguivo le lezioni di Federico Mancini e, una volta alla settimana, partecipavo ai seminari pomeridiani (allora le chiamavano “esercitazioni”), svolti dal professore insieme con tutto lo staff di assistenti (Umberto Romagnoli, Marina Rudan, Franco Carinci, Giorgio Ghezzi, Luigi Montuschi). Alla fine di uno di questi incontri Mancini annunciò che, la settimana successiva, sarebbe stato presente un sindacalista della Cgil ed insistette perché partecipassimo. Questo dirigente era Luciano Lama. Venne accompagnato dal segretario della Camera del Lavoro, Igino Cocchi, svolse una breve relazione sul ruolo del sindacato. Poi gli furono poste delle domande. In particolare mi colpì un intervento di Umberto Romagnoli (anni dopo mi seguì nella preparazione della tesi di laurea) il quale sottolineò, con poca diplomazia, il ritardo con cui la Cgil era arrivata ad assumere la prospettiva della contrattazione articolata. Lama lo ammise, ma si soffermò sui rischi insiti nel “contratto aziendale” come rottura dell’unità delle categorie. Dal momento, però, che Romagnoli insisteva, aggiunse una considerazione che non ho mai dimenticato: l’esperienza della contrattazione decentrata era diventata realtà soltanto dopo la Cgil aveva condiviso quella strategia.
La vocazione
Non passò molto tempo che tornai ad imbattermi in Luciano Lama. Era il febbraio del 1963 (non ricordo bene se l’8 o il 9). Le tre confederazioni avevano proclamato lo sciopero generale dell’industria a sostegno della vertenza dei metalmeccanici (il cui contratto venne firmato subito dopo con il primo riconoscimento del diritto di contrattazione decentrata e di altri diritti sindacali). La sezione bolognese dell’Ugi (l’Unione goliardica italiana di cui si è parlato recentemente in occasione della morte di Marco Pannella che fu tra i fondatori di questa associazione studentesca) organizzò un piccolo corteo di studenti per recarsi a portare la solidarietà ai lavoratori. Io ero tra questi. Lo sciopero era unitario, ma le manifestazioni separate. Ricordo che quella della Cgil si svolse all’interno di Palazzo d’Accursio, nella Sala Farnese, dove potevano raccogliersi solo qualche centinaia di persone. Una circostanza che, in seguito, ho spesso rievocato a quanti auspicavano, negli anni ’80, la fine dell’unità sindacale, perché troppo rinunciataria e compromissoria. Tenne il comizio Luciano Lama, il quale aveva lasciato da pochi mesi la direzione della Fiom per approdare in segreteria confederale. Si rivolgeva al padronato con l’epiteto di “lor signori” (un’espressione che gli era consueta), accusandoli di essere disposti a concedere degli aumenti salariali, ma non dei nuovi diritti. Fu lì che scoprii di avere la vocazione? Fatto sta che, il 1° marzo del 1965 entrai alla Fiom di Bologna e nel luglio 1969 nella segreteria nazionale. Mi attendeva la “svolta” dell’autunno caldo.
Lama, il sindacalista
Lama aveva un modo tutto suo di parlare. Le sue frasi erano generalmente affermazioni. I suoi discorsi non erano rivolti agli astanti. Lama parlava al Paese; si rivolgeva all’opinione pubblica, alle altre organizzazioni, alla Confindustria, al Governo, al suo partito. Ed in questa maniera dava anche la linea ai suoi. A lui non piaceva l’argomentazione sottile, travagliata; le sue erano frasi dirette, inanellate una nell’altra, ma ognuna compiuta in sé. Frasi pronunciate con il tono fermo ed autorevole di una persona consapevole del fatto che le sue affermazioni erano importanti non per il loro valore intrinseco, quanto piuttosto perché era lui a parlare. In proposito potrei ricordare il suo discorso (appena eletto segretario generale della Confederazione) allo storico congresso della Fiom del luglio 1970, quando Lama appoggiò la svolta unitaria della categoria dopo il successo del rinnovo contrattuale dell’autunno caldo. O la manifestazione di Reggio Calabria (in mano ai “boia chi molla”) nell’autunno del 1972. Oppure l’intervento dei segretari confederali (oltre a Lama, Bruno Storti della Cisl e Raffaele Vanni della Uil, il solo ancora in vita) per sbloccare al Ministero del Lavoro il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici di quello stesso anno. O ancora di aver preso parte ad una riunione riservata quando si era deciso che Ottaviano Del Turco dovesse prendere il posto di Roberto Tonini alla Fiom di Roma, ma il gruppo dirigente comunista di quella Camera del Lavoro faceva delle resistenze, sostenendo la candidatura di un operaio della Fatme. Mi rimase impressa una frase di Rinaldo Scheda pronunciata in quell’occasione («il migliore è quello che fa unità») che costituiva un esempio di quale fosse l’etica di quelle personalità.
Il transfert
Lama veniva volentieri a Bologna dove aveva la famiglia. Il padre e la madre (che sopravvisse a lungo al marito) abitavano nei pressi della Camera del Lavoro. Poi in città abitava anche un fratello, ingegnere, tuttora vivente (e presente alla commemorazione del 31 maggio). Come ho ricordato, a Roma (dove restai fino al 1974) mi capitò sovente di incontrarlo. Ma il trasfert tra me e Lama avvenne – credo – quando ero rientrato a Bologna come componente della segreteria regionale della Cgil. Lì ho conosciuto e lavorato con Giuseppe Caleffi, un dirigente che proveniva dalla Federbraccianti e che era portatore di una cultura diversa dalla mia. La collaborazione con Caleffi fu decisiva nella mia formazione perché mi fece comprendere quanto nelle battaglie sindacali fossero importanti le alleanze, la capacità di garantire convenienze differenti quando si mettono in discussioni quelle precedenti. Insomma mi fece intravvedere scenari più ampi e complessi di quelli che avevo conosciuto in categoria. Quando se ne andò in pensione (credo che fosse il 1978) fui incaricato di svolgere il discorso di saluto. Senza falsa modestia mi riuscì uno degli interventi più belli di tanti anni di vita sindacale e politica. Fu un discorso che fece molta impressione e che colpì anche Luciano Lama che era presente in quell’occasione. Ho sempre pensato che quel discorso abbia contribuito a convincere Lama a propormi – primo ed unico socialista della storia – come segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna (fui eletto a quell’incarico il 2 maggio 1980).
Lama, la persona
Lama aveva una resistenza fisica impressionante. Lo si capiva ad occhio nudo, vedendolo passare, alto e diritto, fendendo la folla che gli si accalcava vicino. Era in grado di compiere dei tour de force di notevole impegno, senza mai dare l’impressione di essere stanco. A parte le trattative o i viaggi o i comizi, vi erano altri momenti che richiedevano sforzi intensi anche se meno appariscenti. Lama, nelle riunioni, non perdeva un intervento; ascoltava, quindi, decine e decine di discorsi senza mai muoversi dalla presidenza, con la sua fedele pipa tra i denti centellinando il fumo (Lama adoperava solo pipe di marca Peterson, una casa produttrice che avrebbe dovuto rifornirlo di interi set perché nessuno le aveva mai fatto tanta pubblicità, per giunta gratis). Un giorno, pensai di regalargli una pipa. Così prima che iniziasse la riunione per partecipare alla quale mi ero recato a Roma, passai dal suo ufficio al primo piano del palazzotto color rosa di Corso d’Italia, e gli consegnai il pacchetto con la pipa che avevo acquistato. Lama mi ringraziò e mi promise che ci avrebbe fumato. Cosa che fece durante tutta la riunione. L’oggetto non era un granché rispetto a quelli a cui era abituato. Ricordo che ogni tanto la guardava con l’aria di chi pensa tra sé e sé: «Guarda che cosa mi tocca di fare!».
L’incontro di Piacenza
Un sabato pomeriggio del luglio del 1983, Lama di ritorno dalla Conferenza operaia del Pci, convocata a Genova, (erano queste le “Leopolde” di quegli anni), si fermò a Piacenza per inaugurare delle opere di ristrutturazione della Camera del Lavoro di quella città. Io, in qualità di segretario regionale, andai a riceverlo insieme ad un collega: Romano Capelli. Luciano arrivò nel tardo pomeriggio; faceva un caldo insopportabile. Si recò prima nella sede sindacale dove fece un discorso al quadro attivo. Poi fu la volta del Comitato federale del Pci. Dopo cena era previsto un incontro con la popolazione in Piazza Cavalli (il piancito in pietra trasudava del calore incamerato durante la giornata), nel corso del quale Lama rispose per ore alle domande che gli venivano rivolte dai cittadini. L’incontro durò fino a mezzanotte. A quel punto, Luciano chiese se qualcuno dei dirigenti presenti sapesse giocare a scopone, perché lui, in coppia con il capo della sua scorta (anni dopo questa persona sarebbe entrata a far parte della mia per più di un decennio), avrebbe sfidato i volontari. Il sottoscritto evitò di proporsi. Ricordavo, infatti, che diversi anni prima, avevo giocato a scopone in coppia con Piero Boni contro Luciano ed Albertino Masetti. Avevo fatto tanti di quegli errori che ricordo ancora le critiche ricevute.
La vicenda della “scala mobile”
Poi venne il tormentone della “scala mobile”: i terribili anni del 1984 e del 1985. Primo il decreto del Governo Craxi, nel febbraio del 1984, poi il referendum abrogativo promosso (e perso) dal Pci, l’anno dopo. Ambedue queste sfide − che spaccarono il Parlamento e la sinistra − si combatterono ad ogni livello nel Paese, ma la prima linea del fronte attraversava la Cgil, in cui le componenti (comunista e socialista) vivevano da “separate in casa”. Tutto sommato, la costituzione materiale della Confederazione funzionò anche in quei mesi di assoluto black out. La Cgil dell’Emilia Romagna, di cui io ero segretario generale, fu incaricata da Lama e da Ottaviano Del Turco (il leader della corrente socialista) di tenere accesa la fiammella dell’unità.
Così, subito dopo la rottura organizzammo un convegno – a Bologna, al Teatro Manzoni – in cui mettemmo a confronto le differenti posizioni. Io svolsi la relazione di apertura, Lama Le conclusioni. Come Dio volle, una volta convertito con modifiche il decreto (l’ostruzionismo del Pci e dei compagni di strada della Sinistra indipendente fu durissimo), in Cgil si ricostruì uno straccio di posizione unitaria – sostanzialmente “fuori mercato” – che doveva essere presentata al popolo della sinistra, diviso da mesi di polemiche e scontri politici. Ancora una volta toccò alla Cgil della mia regione di dare il “buon esempio”, di mandare un segnale della ritrovata unità, con una manifestazione in Piazza Maggiore dove parlammo io e Lama. Fu, per tanti motivi anche personali, il comizio più difficile della mia vita.
Il brodo e il lesso in casa Lama
Quando mi recavo a Roma per qualche riunione ero solito dormire, in via Piave, a casa di Del Turco e di Maria Grazia Bacchi, la sua compagna di allora (mi scuso ancora per il disturbo recato). Partivo da Bologna intorno alle 18,30 ed arrivavo nella capitale alle 22,15. Allora non c’era ancora l’Alta Velocità. Una notte, era domenica, in casa non c’era nessuno. Ottaviano mi aveva lasciato un biglietto in cui mi chiedeva di telefonare in Cgil. Cosa che feci. La mia telefonata era attesa. Venne un auto che mi portò a casa di Luciano Lama, dove si trovavano Ottaviano e Maria Grazia. La signora Lora mi aveva tenuto in caldo la cena (nonostante fossero ormai le 23): una minestra in brodo con zuppa imperiale e del bollito. Intorno a Luciano c’era tutta la sua famiglia: oltre alla moglie le due figlie, una giornalista, l’altra medico.
In difesa di Lama
Nel gestire le politiche degli ultimi anni Lama era entrato in conflitto con la parte più radicale della corrente comunista, guidata da una dei due “cavalli di razza” della Confederazione: Sergio Garavini (l’altro era Bruno Trentin), il quale era uscito dalla segreteria confederale per andare a dirigere la Fiom. Io ero diventato segretario generale dei chimici. Ci fu un dirigente lombardo della Fiom, di cui non ricordo il nome, che criticò una proposta avanzata da Lama (il “patto tra produttori”) nel dibattito che precedette il Congresso del 1986, quando Luciano aveva deciso di dimettersi dalla carica ricoperta per 16 anni. Io gli risposi con una dichiarazione nella quale l’apostrofavo da “ragioniere prestato alla politica”. In quanto tale – sostenevo − non avrebbe dovuto permettersi di polemizzare con Lama. Il che provocò una lettera di protesta di Sergio Garavini, inviata alla mia segreteria. Sergio Cofferati, allora mio vice, solidarizzò con me.
Odore di tartufo
Anni dopo, quando Lama era uscito dalla Cgil ed era vice presidente del Senato, lo accompagnai (ero segretario confederale dal 1987) in una città delle Marche (nota produttrice di tartufo bianco), dove fu accolto in un teatro pieno come un uovo, a dimostrazione dell’affetto di cui ancora godeva. Alla fine gli fecero omaggio di un’enorme cesta di tartufi. A me ne toccò una più piccola. Al ritorno l’auto spandeva effluvi di tartufo.
Il malore di Luciano
Dell’affetto di cui era circondato Luciano ebbi una prova alcuni mesi dopo, quando si svolse in Piazza S. Giovanni a Roma una manifestazione unitaria dei pensionati. Lama, allora vice presidente del Senato, era sul palco. Ricordo che si avvicinò mentre stavo parlando con un collega della Cisl per fissare una riunione. Lo pregai di attendere un momento, ma notai che un rivolo di sudore gli discendeva dalla fronte. Pochi minuti dopo, scoppiò il finimondo sul palco. Lama era svenuto e una dirigente della Uil, medico, gli stava praticando il messaggio cardiaco. Alla notizia, la piazza rimase sconvolta. Venne trasportato d’urgenza all’ospedale. Il primo ad arrivare fu Giovanni Spadolini; ma fu tutto un correre ad informarsi sulle sue condizioni di salute fino alla sera quando venne dimesso. Fu quella l’ultima volta che vidi Luciano di persona. Mi pento ancora di non avere ascoltato quello che mi voleva dire e non aver interrotto il colloquio con il collega.
Il commiato
Qualche tempo dopo, quando seppi che Luciano era gravemente malato ed invalido (tanto che aveva lasciato l’incarico, l’ultimo che svolse, di sindaco di Amelia, dove aveva il suo “buon ritiro”) gli scrissi una lettera. Lui mi rispose con un biglietto che conservo ancora tra le cose più care, insieme alla foto che mi ritrae mentre gli stringo la mano al suo arrivo a Piacenza in quella giornata afosa di luglio.
Ecco, credo opportuno fermarmi a questo punto nel rievocare il “mio amico” Luciano Lama. Avrei potuto parlare lungamente del suo rapporto con la politica, con il suo partito, con le altre organizzazioni sindacali. Avrei potuto ricordare la sua lotta intransigente contro il terrorismo, il suo impegno nella difesa dell’unità della Cgil e nel generoso tentativo della ricostruzione di un sindacato unitario. Ma un “amico” lo si ricorda per altri aspetti: come persona, nella sua umanità. Ormai anch’io sono vicino a tirare le somme di una esistenza lunga e ricca di esperienze. Anch’io posso affermare: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede». Ed ho conosciuto persone come Luciano. Mi auguro soltanto che quando verrà il momento di pronunciare l’invocazione del vecchio Simeone (nunc dimittis servum tuum, domine) possa ritrovarmi intorno ad un tavolo – magari nei pressi di verdissimi pascoli e di placide acque – a ripetere quella partita di scopone scientifico, in coppia con Piero Boni, contro Lama e Masetti. Prometto che questa volta giocherò bene.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus
Ex segretario confederale CGIL
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