E’ annunciato per il mese di giugno l’inizio di operatività della Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) che pur scontando un ritardo di avvio rispetto alle previsioni del decreto 150 di settembre 2015 che l’ha istituita, promette di costituire una rivoluzione nelle politiche attive del lavoro.
La rivoluzione auspicata, nelle dichiarazioni del management al quale è stata affidata la direzione, sembra focalizzarsi soprattutto su due elementi che dovrebbero favorire l’abbattimento della disoccupazione attraverso l’utilizzo dell’assegno di ricollocazione: la messa in funzione di un sistema informativo per far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro che faciliti la cooperazione tra i soggetti della rete dei Servizi, e la promessa di un sistema sanzionatorio puntualmente applicato per chi rifiuta opportunità di lavoro o formazione.
Tralasciando le considerazioni sulla scarsa novità rappresentata dalla previsione dell’ennesimo tentativo di mettere in piedi sistemi informativi già abbondantemente esistenti a livello nazionale e regionale, di seguito qualche riflessione su alcuni elementi che ci separano dai sistemi europei che funzionano – costantemente citati come modelli di riferimento.
Per poter sfruttare appieno le potenzialità della rivoluzione digitale e dei sistemi informativi sono necessarie – oltre alla messa in disponibilità di tecnologie e strumentazione – due condizioni: i soggetti coinvolti devono saper usare la strumentazione e devono parlare lo stesso linguaggio – che vuol dire, quindi, non soltanto sistemi interoperabili ma, dietro ai sistemi, persone che attribuiscano lo stesso valore semantico alle informazioni e ai dati inseriti.
In riferimento ad entrambi gli elementi è evidente l’arretratezza di un Paese che le classifiche internazionali posizionano costantemente agli ultimi posti quando si parla di digitale. Secondo il Digital Economy and Society Index (Desi), che valuta gli Stati dell’Unione Europea sulla base di cinque indicatori (connettività, competenze digitali della popolazione, uso di internet, integrazione delle tecnologie e servizi pubblici digitali), l’Italia è venticinquesima su ventotto.
Questo richiama la necessità di colmare il gap digitale – che coinvolge allo stesso modo piccole imprese, pubbliche amministrazioni e lavoratori o aspiranti tali – innanzitutto mettendo ciascuno nelle condizioni di usare le strumentazioni tecnologiche senza ignorare, però, che per superare i ritardi è necessario affiancare alla dimensione tecnologica una più antropologica, che parta dalla consapevolezza che l’innovazione dei processi non si può limitarsi a trasferire su digitale ciò che prima era cartaceo.
L’esigenza di rendere dialoganti i sistemi informativi, inoltre, richiama anche ad una necessità sulla quale da anni nel mondo della formazione e delle politiche del lavoro si discute senza esiti troppo evidenti: individuare dei sistemi di codifica per le informazioni che non hanno corrispondenza automatica. Tutti gli operatori dei Servizi per il Lavoro sanno che, al momento di effettuare un incrocio domanda offerta, è necessario procedere alla decodifica di elementi espressi con linguaggi diversi: esigenze delle aziende che rilevano fabbisogni spesso in termini di mansioni e di fasi dei processi di lavoro ai quali adibire i lavoratori; attestati degli istituti di istruzione e formazione che sono tarati sul valore legale del titolo di studio o della qualifica; competenze dei lavoratori che esprimono aspirazioni ed esperienze.
Il tutto da incrociare con comunicazioni obbligatorie e codici istat, declaratorie da contratti nazionali e aziendali, tipologie contrattuali e, non ultime, nuove professioni espresse da competenze multiple e termini inglesi talvolta arbitrariamente individuati in assenza di mappature e repertori omogenei.
Se l’ipotesi è di affrettare la trasmigrazione sul web per costringere il sistema ad adeguarsi, non si può non tener conto che, anche al di la delle considerazioni sulla necessità di non ampliare l’analfabetismo digitale che tiene ancora lontani tanti cittadini dagli impieghi fondamentali della rete come l’uso delle mail o l’accesso alle fonti di informazione, si rischia così di mettere in piedi un sistema che per anni ancora sconterà ritardi ed inefficienze.
I sistemi europei che funzionano hanno pianificato campagne massicce di alfabetizzazione informatica, di potenziamento delle competenze trasversali, di omogeneizzazione di linguaggi anche per accompagnare la digitalizzazione dei servizi, producendo cosi, inoltre, occupazione di qualità.
Una considerazione, in conclusione, sul sistema sanzionatorio. Ad un operatore del Centro per l’Impiego si potrà certo affidare la responsabilità ultima di vigilare sul rispetto da parte del lavoratore dell’impegno a presentarsi alle convocazioni, ad inviare curriculum, a rispondere alle offerte di lavoro.
A nessuno sfugge però che, qualora il lavoratore non ritenga congrua un’offerta, difficilmente si farà sanzionare rifiutandola, poiché chiunque sa come eventualmente non farsi “scegliere” da un’azienda durante il colloquio di lavoro.
L’eccessiva focalizzazione su tecnicismi ed automatismi, quindi, rischia forse di far passare in secondo piano il valore aggiunto “umano” dell’orientamento e della motivazione, che in questo caso si riferisce sia agli aspiranti lavoratori – che, soprattutto in periodi di crisi, difficilmente rinuncerebbero a cogliere un’opportunità lavorativa congrua che fosse davvero tale – che agli operatori dei Centri per l’Impiego i quali – ridotti nel numero, con un lungo mancato rinnovo contrattuale, marchiati da stigma negativo di improduttività – nel corso degli anni sono stati fatti bersaglio di campagne di comunicazione che fanno scontare ai nodi terminali dell’erogazione dei servizi le inefficienze complessive del sistema.
Ripartire dalla reale volontà di mettere le persone al centro delle azioni potrebbe costituire la reale innovazione per le politiche del lavoro.
Tonia Maffei
Esperto dell’organizzazione del lavoro