Con un tasso di disoccupazione degli under 25 tra i più alti d’Europa e oltre 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano i risultati del piano “Garanzia giovani” sono particolarmente attesi. Dopo qualche mese di silenzio l’Isfol ha rilasciato alcuni dati che aiutano a far luce non solo sul piano europeo, ma sulla condizione occupazionale degli over 29 italiani e sui suoi problemi ormai endemici. Se infatti il numero di giovani iscritti al piano supera il milione, e se il numero di coloro che sono stati convocati dai servizi per l’impiego è soddisfacente (intorno al 77%) permane una situazione molto critica.
Sul fronte quantitativo abbiamo 350mila giovani circa che hanno ricevuto una proposta concreta dopo aver sostenuto il colloquio e soltanto il 22% sul totale dei partecipanti risulta avere oggi una occupazione. Ciò significa che ancora molti giovani iscritti al piano sono in attesa di una opportunità reale. Ma c’è anche un problema di qualità, dato dal fatto che il 64% delle offerte fatte agli iscritti riguarda tirocini, e sono solo il 10% le proposte di un vero e proprio contratto di lavoro.
Ed è proprio da qui che bisogna partire per analizzare la situazione spesso drammatica dei giovani italiani. Infatti il tirocinio è oramai diventato la forma principale attraverso la quale si incontra il mercato del lavoro alla fine e non, come dovrebbe essere, già durante il proprio percorso di studi, sia esso di scuola secondaria, universitario o master.
Insomma, come ripartire ogni volta da capo dopo aver terminato il percorso formativo scolastico. Spesso peraltro i tirocini offerti dalle nostre imprese non sono una attività veramente formativa, e le offerte presenti sul portale di “Garanzia giovani” lo dimostrano, essendo esse le più variegate ed offrendo posizioni lavorative per le quali andrebbe benissimo un normale contratto di lavoro. Inoltre un tirocinio è spesso la porta d’ingresso per un ulteriore tirocinio o per un periodo più o meno lungo di disoccupazione, basti pensare che nel caso dei tirocini attivati tramite “Garanzia giovani” solo il 36% viene convertito in un contratto una volta concluso.
Le imprese, dal canto loro, hanno tutto il vantaggio ad utilizzare questo strumento poiché significa un risparmio cospicuo sia sul costo del lavoro, ulteriormente ridotto dai bonus del piano europeo, sia sugli obblighi contrattuali che nel tirocinio sono assenti. È quindi molto facile incontrare oggi giovani laureati da ormai quattro o cinque anni che hanno alternato mesi di disoccupazione a mesi di tirocini non qualificanti e sottopagati. L’impatto sociale è fortissimo, molto più di quanto i numeri possano far o meno intendere.
Parliamo di una generazione intera, quella dei nati dal 1985 in poi circa, per i quali la mobilità sociale garantita un tempo dagli studi, specialmente da quelli universitari, oggi non esiste più. Un vero e proprio paradosso, poiché vede coloro che più sono a contatto con la tecnologia e con l’innovazione al palo, a fronte di un mercato del lavoro che fatica a trovare i profili che cerca. Rendersi conto di questo non equivale a spalleggiare il vittimismo che spesso caratterizza tanti giovani, ancora convinti che l’iniziativa personale sia secondaria ad uno Stato che deve garantire lavoro e agiatezza. Significa però avere la consapevolezza che oggi non basta incentivare le imprese ad assumere o promuovere tirocini a costo zero per aiutare questa generazione.
E il piano europeo aveva ben chiaro questo scenario, se è vero che aveva come obiettivo non quello di trovare un lavoro ai giovani, ma quello di aumentarne l’occupabilità, ossia la capacità di muoversi sul mercato del lavoro, valorizzando le proprie competenze e rendendosi appetibili a chi offre lavoro, o anche costruire nuovi percorsi professionali e di carriera oggi non definiti. Si è ancora una volta scommesso invece sull’incentivo fine a sé stesso, e basta vedere i pochissimi percorsi di apprendistato avviati per capire che l’efficacia sia minima.
Il problema è più profondo ed è antropologico e culturale. Da un lato un sistema formativo che oggi sembra ben poco allineato con le esigenze dei moderni mercati del lavoro, dall’altro un sistema industriale che spesso predilige soggetti già formati e che non investe nel trasferimento di quelle competenze che sarebbero necessarie non solo ai giovani ma all’impresa stessa. Il tutto si può riassumere in una estrema carenza di veri maestri, di persone appassionate che non considerano formare un giovane come una perdita di tempo, ma come un investimento e una occasione per innovarsi, aggiornarsi e stare al passo con la modernità. È difficile costruire politiche che vadano a invertire i trend culturali, ma qualcosa si può fare.
Sviluppare l’incontro tra lavoro e scuola è una delle strade privilegiate, ma solo se si considera l’alternanza scuola-lavoro come un metodo educativo per una vera integrazione tra due mondi che spesso non si parlano. È un vero maestro, sia in classe che in impresa, è quello che aiuta a costruire ponti, non muri. Intervenire sui tirocini, controllarli e regolarli in modo che questi siano uno strumento di accesso al mercato del lavoro vero e proprio è una seconda strada.
Una terza è quella di un sistema di politiche attive che sappiano riconoscere, codificare e valorizzare le competenze dei soggetti presi in carico e gestire le transizioni occupazionali, che non devono essere più un momento morto tra due lavori occasionali ma una occasione di mobilità verticale. Le azioni sono urgenti e strutturali, ma necessarie per evitare di perdere un’altra generazione di giovani.
Coordinatore scientifico ADAPT
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
Pubblicato anche in Avvenire, il 1 luglio 2016