Il carattere della rubrica (oltre alla cortesia della direzione) mi consente di essere politically (in)correct per affrontare un tema che esorbita delle consuete problematiche che costituiscono la mission del Bollettino. Mi avvarrò dunque della consueta ospitalità per manifestare la mia intenzione di votare NO nel referendum sulla legge costituzionale n. 88 del 2016 (la c.d. riforma Boschi) e per spiegarne i motivi. Quella di spiegare i perché è un’esigenza che sento per primo io (anche se probabilmente non interessa ai miei ‘’venticinque lettori’’), dal momento che non mi piacciano tanti, troppi dei miei nuovi ‘’compagni di strada’’. Mi imbarazza trovarmi a combattere la stessa battaglia insieme con persone e forze politiche con cui non ho avuto mai o non ho più nulla da spartire. Anzi, sembra proprio che il destino si sia impegnato di proposito a schierare, in primo piano, nelle file del NO gli avversari che ho avuto in tante fasi diverse della mia vita (da sindacalista, da studioso, da parlamentare e quant’altro). Ma anche per me ‘’più che il dolor poté in digiuno’’.
Non riesco a condividere lo spirito e i contenuti di questa (contro) riforma. Metto subito le mani avanti. I sostenitori del Si hanno ragione quando accusano gli avversari di non avere un’idea alternativa, soprattutto quando essi affermano che la Carta doveva essere cambiata – soprattutto per quanto riguarda il ‘’bicameralismo paritario’’- ‘’ma non così’’. Allo stesso modo, non è convincente che una parte del centro destra si sia schierata tardivamente per il NO, quando con i suoi voti è stata determinante fino ad un attimo prima della conclusione del processo legislativo (ricordiamo tutti l’abbraccio tra Maria Elena Boschi e Paolo Romani in Senato). Per quanto mi riguarda, esiste un’alternativa: quella di custodire il testo del 1948. Gli ordinamenti costituzionali, prima ancora che per affermare dei particolari valori e principi, nascono contro altri valori e principi. Non c’è dubbio che la Carta approvata dall’Assemblea costituente volle contrastare valori e principi autoritari prima ancora che affermarne di liberali e democratici. Come scrisse Piero Calamandrei: ‘’ E‘ stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime’’. In sostanza, gli ordinamenti si definiscono per contrastare le forze ritenute eversive. Da noi si è fatto e si sta facendo il contrario: si accarezza secondo il senso del pelo la bestia feroce nel tentativo di rabbonirla. In sostanza, sono di solito le forze eversive a dettare la linea del cambiamento. Le riforme del 2001 e del 2006 (quella realizzata del Titolo V e quella bocciata dalla consultazione popolare) inseguivano ambedue la chimera del federalismo (che poi divenne devolution) al solo scopo di contendere prima, di accontentare poi, una idea della Lega che sembrava aver attecchito tra le popolazioni del Nord.
Oggi di federalismo non parla più nessuno, nonostante che sia ancora lì il quadro legislativo predisposto nella XVI Legislatura, con voti largamente bipartisan. Quanto alla riforma del 2016, essa ha al proprio interno l’anima nera dell’antipolitica (le suggestioni lungamente praticate negli anni scorsi che hanno finito per scuotere l’albero e far cadere i frutti nell’orto del M5S). Si è voluto costituzionalizzare l’invidia sociale (si pensi che diventa norma costituzionale il livello degli stipendi dei consiglieri regionali e dei sindaci e che si piantano, qua e là, la bandierine festose della gratuità delle cariche). Le istituzioni stesse sono presentate come un male necessario, da ridimensionare il più possibile. La politica diventa così una croce che il Paese deve portare sulle spalle perché essa è costituita dalla parte peggiore del Paese. E così la c.d. semplificazione viene presentata come una sorta di riduzione del danno (meno poltrone, meno stipendi e quant’altro). E con questo sottile veleno, instillato quotidianamente, si vorrebbe indurre la gente ad accettare un cambiamento limitato ad un salto generazionale, compiuto all’interno delle forze politiche tradizionali; senza accorgersi che, sulla base di questa filosofia, vince chi promette mutamenti più radicali, di tagliare più teste e ….. buste paga. Per chi scrive l’antipolitica è la stessa arma che i fascismi europei del secolo scorso usarono per conquistare il potere. Anche allora erano nel mirino le vecchie classi dirigenti liberali, le ristrette oligarchie élitarie che pure avevano il merito della conquista e del mantenimento di ordinamenti costituzionali.
E’ a questo punto che va confutata un’altra delle critiche rivolte al bicameralismo paritario: quella di essere una scelta di compromesso che consentiva un maggiore equilibrio tra le due principali forze politiche che si contendevano il diritto di fondare la nuova Italia. Grazie a tale articolazione del potere legislativo (del resto, il Senato ha un elettorato attivo e passivo, diverso da quello della Camera) nessuna delle due avrebbe vinto o perso del tutto. Così è stato anche durante la c.d. Seconda Repubblica, in regime di leggi elettorali maggioritarie. Chi lo ha detto che un Governo debba necessariamente disporre di un Parlamento addomesticato ? Nella più grande democrazia del mondo, gli Usa, capita sovente che nelle elezioni di medio termine il Presidente debba misurarsi con una nuova maggioranza diversa dalla sua in ambedue le Camere (elettive e dotate di funzioni legislative) del Congresso o in una sola di essa. E nessuno ha mai pensato di cambiare queste regole. In Francia, è avvenuto almeno due volte che si rendesse necessaria la c.d. coabitazione tra un presidente socialista ed un premier gollista e viceversa. Tutto ciò premesso, è proprio vero che, da noi, quell’esigenza di maggiore equilibrio tra chi vince e chi perde le elezioni sia venuta meno nell’Italia di oggi. Questa riforma non è stata pensata in astratto, ma nel vivo della realtà politica scaturita dalla consultazione elettorale del 2013, quando era emersa dalle urne una forza eversiva come il M5S. In sostanza, si è accettato – trasformando, per giunta, la legge elettorale in un grimaldello per una completa prise du pouvoir a livello di tutte le istituzioni – di correre con Beppe Grillo quel rischio che si voleva evitare con Palmiro Togliatti. Ci sono poi altri argomenti che vengono portati a sostegno della legge Boschi: tra questi primeggia l’esigenza di una maggiore tempestività del lavoro legislativo, senza la perdita di tempo delle doppie letture e delle ‘’navette’’ tra una Camera e l’altra. Sono invece persuaso dell’inutilità di una laboriosa opera di revisione costituzionale quando sarebbe bastata una seria modifica dei Regolamenti parlamentari (che non c’è ancora stata). Il Governo ha costretto il Parlamento a seguire la via impervia dell’articolo 138 Cost. La forza dei fatti, però, ha voluto che ai Regolamenti si dovesse tornare – come vedremo – per vincolo costituzionale e per dare compiutezza ad una (contro)riforma costituzionale di cui non c’era necessità e che – mi auguro – gli italiani, a novembre, non renderanno operativa. Vogliamo fare degli esempi per dimostrare che il problema sta nei Regolamenti ? Non ha senso che, alla Camera, prima di votare la fiducia al Governo su qualsiasi provvedimento, si debba cessare ogni attività per 24 ore. Non ha senso che gli stessi emendamenti, bocciati nelle Commissioni, possano essere riproposti, ridiscussi e rivotati nelle Aule. Non ha senso perdere tempo, tanto in Commissione quanto in Aula, con la discussione generale, durante la quale sono presenti e partecipano solo gli iscritti a parlare (duelli oratori per la trascrizione nel resoconto, perché nessuno li ascolta) e se, sono fortunati, qualche loro amico (a cui dopo offrono il caffè).
E che dire della sceneggiata del question time, fatto apposta per far apparire in televisione l’interrogante e quei pochi che ‘’fanno gruppo’’ vicino a lui ? Credo di potermi fermare qui, anche se potrei proseguire oltre. Faccio solo notare che lo stesso rapporto tra Aula e Commissioni è una questione di carattere regolamentare. La Costituzione, per esempio, consente alle Commissioni di deliberare in via legislativa. Ma questo non avviene quasi mai, neppure per le leggine. Ma una revisione della materia – che non è all’ordine del giorno – consentirebbe un radicale snellimento dei lavori parlamentari, anche in un sistema di bicameralismo paritario. Pure sulla c.d. navetta tra una Camera e l’altra, ci sono molte esagerazioni. Quanti sanno, per esempio, che già oggi, in un’eventuale terza lettura del provvedimento non possono più essere esaminate e discusse le norme che hanno avuto un’approvazione conforme da ambedue le Camere nelle letture precedenti? Vi sono poi nelle nuove norme dei veri e propri strafalcioni – a mio modesto parere, ovviamente – in senso tecnico-giuridico. Paradossalmente il diavolo ci ha messo la coda: in Costituzione sono finite norme di carattere regolamentare. Nei nuovi articoli vi sono delle disposizioni che starebbero meglio in un Regolamento anziché nella Legge fondamentale dello Stato, tanto più che l’applicazione di primarie norme di rango costituzionale viene rinviata, nel testo, alla definizione che sarà data nei Regolamenti parlamentari. Quali sono le norme di carattere regolamentare che vengono ‘’costituzionalizzate’’? Per esempio, ha un senso scrivere in Costituzione che una legge approvata dalla Camera deve essere trasmessa al Senato, su materie di sua competenza, entro 10 giorni ? Oppure, c’era bisogno di scrivere in Costituzione che il Governo può chiedere un percorso privilegiato per un provvedimento a cui è particolarmente interessato ? Bastava una norma nel Regolamento. Già oggi, ad esempio, è sufficiente il Regolamento per consentire alle opposizioni di far mettere all’odg della discussione un disegno di legge di loro interesse. Considero sbagliato e pericoloso che siano delle norme di carattere costituzionale a regolare minuziosamente delle procedure che, in questo modo, si irrigidiscono. È lo stesso errore che aveva fatto il Governo Berlusconi nella sua riforma, tanto checosissss io votai No anche in quell’occasione.
Nemmeno nell’immaginaria Repubblica delle banane, poi, avrebbero scritto una norma di rango costituzionale come quella che riforma l’articolo 70 della Costituzione del 1948 (il primo – Sezione II della Parte II – riguardante la formazione delle leggi). Il vecchio articolo 70 è composto da 9 parole (‘’La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere’’). L’articolo 10 della legge n.88/2016 (che sostituisce il precedente) di 454 parole. Che cosa significa tutto ciò? Forse i Padri costituenti volevano risparmiare le parole ? Il fatto è che quei legislatori sapevano bene che i rapporti tra le due Camere e il loro funzionamento andavano disciplinati e risolti da appositi regolamenti parlamentari, come è avvenuto (anche con ricorrenti modifiche) in questi settant’anni e come accade in tutte le Assemblee elettive del mondo. La legge Boschi, invece, eleva al rango di norme costituzionali disposizioni prettamente regolamentari. Così gli eventuali conflitti di competenza tra le due Camere – in passato regolati da un incontro tra i due Presidenti – chiameranno in causa nientemeno che la Consulta. Alla faccia della semplificazione! I nuovi conflitti – arbitrati dalla Consulta – al confronto dei quali gli effetti sciagurati della deleteria riforma del Titolo V sembreranno giochi da ragazzi. C’è poi un’ ulteriore stranezza che andrebbe rilevata.
I componenti nullafacenti del nuovo Senato decadranno dal loro mandato ogni volta che il Consiglio regionale, di cui sono espressione, andrà alle elezioni. Ormai, anche il voto nelle regioni non avviene più alla stessa data, ma in ragione delle diverse scadenze. Può accadere, allora, che nel corso del mandato della Camera, in cui la maggioranza è rafforzata dal premio, cambino la composizione e l’orientamento politico del Senato e che, quindi, sia pure nel contesto di competenze limitate, la Camera minor si metta in conflitto aperto con quella maior, anche come rivalsa al ridimensionamento dei poteri che il vecchio Titolo V riconosceva alle Regioni e che la nuova Carta ha effettuato. Che altro aggiungere? Bastano le parole di Piero Calamandrei ai giovani: ‘’ Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione’’.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus