All’indomani della pubblicazione degli ultimi dati provenienti dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps che riportano il continuo calo delle attivazioni dei contratti a tempo indeterminato e l’aumento annuale del 28% dei licenziamenti disciplinari, Tommaso Nannicini e Filippo Taddei (rispettivamente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e responsabile per l’economia del PD) scrivono su L’Unità per difendere “la riforma che ha ridotto le tasse sul lavoro a tempo indeterminato, cambiato le regole contrattuali ed esteso gli ammortizzatori”.
Da qualche mese in materia di lavoro una differenza prima visibile tra la comunicazione della politica e la comunicazione dei tecnici tende a svanire. Lo dimostra il susseguirsi di interventi dei tecnici del governo sulle pagine dei giornali. Nel caso in questione, dopo una spiegazione tecnica, il ragionamento si conclude constatando “il complesso effetto positivo di una riforma che ha rafforzato il lavoro stabile e ha dato più tutela effettiva ed opportunità a una grande fetta di lavoratori italiani esclusi dalla crisi”.
In effetti da quando i primi tasselli della riforma del lavoro sono stati introdotti, nella vicenda del lavoro italiano di precario c’è innanzitutto la reputazione del Jobs Act stesso. Un eventuale aumento del numero di licenziamenti è sempre stato infatti la minaccia principale per la credibilità della riforma raccontata da Renzi, secondo il quale il superamento dell’articolo 18 non era un modo per rendere più facile risolvere rapporti di lavoro, ma al contrario una misura per rimuovere “gli alibi” alle assunzioni.
Si tratta di un fenomeno allettante per i media, che si inserisce molto facilmente nella narrativa della precarizzazione del paese e che nel contesto attuale risulta ancora più nociva. Il Jobs Act ha infatti messo “il carro” della liberalizzazione dei licenziamenti davanti ai “buoi” delle politiche attive, scommettendo su una ripartenza dell’economia che però non si è manifestata nei termini attesi. Il risultato è che è diventato plausibile per i cittadini il seguente racconto alternativo: il mercato del lavoro si presenta stagnante, ed esauriti gli incentivi alle assunzioni, le imprese con prospettive economiche incerte assumono facendo ricorso al tempo determinato (anch’esso liberalizzato dal Jobs Act in via emergenziale) e interrompendo rapporti di lavoro non più sostenibili. Il che non darebbe adito ai toni allarmistici che compaiono sui giornali se il pilastro delle politiche attive e di ricollocazione non ritardasse ad essere implementato.
Comprensibile allora che si serrino le fila della comunicazione politica ricorrendo alle prime linee dei tecnici, come Nannicini e Taddei che, ripetutamente e condivisibilmente, in passato sono stati tra coloro che hanno invitato alla cautela di giudizio, rammentando come valutazioni affidabili sul Jobs Act debbano essere fatte nel lungo periodo. Nemmeno stupisce che l’argomentazione seguita faccia leva su una dicotomia retorica fondamentale della quale i tecnici sarebbero i garanti, quella secondo cui “le opinioni sono importanti, ma i fatti lo sono di più”.
A sorprendere è piuttosto il fatto che anche il contributo politico (legittimamente politico) dei tecnici non ripiani la confusione emersa con l’aumento della pubblicazione di dati sul lavoro di diversa provenienza istituzionale. Confusione che contraddistingue un dibattito ormai esausto sul supposto “effetto Jobs Act”. È infatti comprensibile che si facciano valutazioni sulle dinamiche indotte dalla riforma usando i dati di flusso dell’Inps, ossia quei dati che registrano tutto quanto accaduto nei mesi di riferimento, mentre quelli Istat, statistici, campionano invece la situazione puntuale del mercato del lavoro ad una determinata data. Come diceva lo stesso Nannicini insieme a Marco Leonardi (economista consigliere di Renzi) a febbraio di quest’anno, parlando di assunzioni e licenziamenti, è la dinamica di flusso che conta. Bisogna domandarsi insomma: cosa succede nel mercato del lavoro rispetto ad assunzioni e licenziamenti, le prime incentivate economicamente, i secondi resi normativamente più semplici.
In questo senso semmai si registra la carenza di dati più approfonditi che permettano di verificare correlazioni che sono sin qui solo ipotetiche. Non sappiamo per esempio quanti dei licenziamenti segnalati dall’Inps riguardino contratti a tutele crescenti, il che dirimerebbe le rispettive accuse di catastrofismo e di edulcorazione. Su questo piano però nemmeno il governo è esente da responsabilità retoriche visto che parlando dell’occupazione complessiva post Jobs Act, ha sempre attribuito deterministicamente tale aumento (i famosi circa 600 mila occupati in più) proprio e solo alla riforma. Come se i fattori internazionali (prezzo del petrolio, dollaro debole e quantitative easing) non esistessero, e omettendo che l’aumento è stato tutto concentrato nella fascia over 50, fatto che induce i più a pensare agli effetti della riforma Fornero delle Pensioni.
D’altronde però questa comunicazione declamatoria e combattiva fa il paio con la strategia politica impostata da Renzi, ossia con il decisionismo della rottamazione, contrario semanticamente a ogni tipo di sperimentazione e di controvertibilità delle scelte. Un approccio che non mette al primo posto la valutazione e il monitoraggio, perché proclamando la bontà a prescindere di una misura, non ha altra scelta che quella di celebrarne gli effetti sistemici positivi.
Si tratta però di una comunicazione abbastanza esausta e che in vista del referendum costituzionale ha lasciato largamente spazio ad un’altra materia che, significativamente, appartiene sempre alla sfera del lavoro: le pensioni. A pensar male si fa peccato, ma questa scelta pare razionale rispetto a fini di consenso politico se si considera che i giovani sono tradizionalmente più disaffezionati al voto.
La distrazione occorsa nel dibattito pubblico è però importante visto che la generazione che costituisce un problema fondamentale per il mercato del lavoro italiano e che va incontro a una nuova povertà rispetto a quella precedente è proprio quella dei giovani. è quindi come se il governo avesse abbandonato la possibilità di comunicare ai giovani, che pure sarebbero interessati al pensiero del governo rispetto al loro futuro.
Il fatto si spiega anche con la mancanza di argomenti a disposizione della politica: come ha detto più volte Renzi, di Garanzia Giovani è meglio non parlare, mentre le altre politiche attive, che sarebbero più allettanti proprio per un pubblico che le vecchie tutele non le ha mai conosciute, ritardano.
Tutti questi nodi del consenso generazionale stanno per venire al pettine. ll Jobs Act è stato il primo e principale strumento di consenso di Renzi e l’intervento con il quale il premier ha identificato la sua capacità riformatrice. Al di là del suo portato simbolico, Il superamento dell’articolo 18 ha contato sin qui positivamente per gli equilibri politici, nel rapporto con i “compagni di maggioranza” e le imprese. Rischia però di rovesciarsi in squilibrio in assenza della contrappeso delle politiche attive. Se il gioco è valso la candela in termini di consenso complessivo si vedrà con referendum costituzionale, a sua volta personalizzato da Renzi. Una personalizzazione ormai definitiva, come sembra dire l’assenza di discussione sul merito della questione nel dibattito pubblico. La consultazione si è già fatta quindi collettore di una percezione sociale della condizione del paese e dell’operato del Governo; percezione nella quale l’ultima riforma del lavoro conta evidentemente molto. Licenziamento più licenziamento meno, non pare quindi esagerato guardare al referendum costituzionale come ad un banco di prova degli effetti comunicativi del Jobs Act.
ADAPT research fellow
Pubblicato anche su Linkiesta, il 20 ottobre 2016