“Il tempo come misura del lavoro subordinato” è il titolo del seminario tenuto dal Prof. Vincenzo Bavaro presso la scuola di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro.L’incontro con il professore dell’Università di Bari è stato l’occasione per i dottorandi della Scuola ADAPT di confrontarsi con una prospettiva di ricerca originale, riguardante una variabile centrale del lavoro del futuro: il tempo di lavoro. Variabile, questa, non certo estranea alle dinamiche di un presente investito da un incessante processo di trasformazione dei modi di produrre e lavorare, il quale manca tuttavia di essere accompagnato da una parallela evoluzione delle categorie giuridiche del diritto del lavoro che ne facilitino il dispiegarsi lungo percorsi di sostenibilità tanto per le aziende che per i lavoratori.
L’analisi del Professore muove dalla constatazione di come l’orario di lavoro sia stato, nel complesso, un tema “negletto” nel panorama degli studi giuslavoristici: anche per questo motivo risulta di particolare interesse il punto di vista di un esperto che concentra su questa materia una parte importante della sua produzione scientifica.
Una premessa di natura storico-giuridica si rivela un favorevole punto di partenza per descrivere la parabola della modernità del lavoro e, in particolare, dell’evoluzione del rapporto di lavoro subordinato. Già nel diritto romano, infatti, con il processo di emancipazione dello schiavo, la dimensione del lavoro si fonda sulla estensione temporale, che diviene quell’elemento utile a distinguere, per la prima volta, il tempo della libertà da quello dell’assoggettamento. In tale rappresentazione il lavoro viene ad identificarsi con il tempo che una persona dedica all’esecuzione della prestazione lavorativa, e questa oggettivazione temporale è destinata a divenire il primo baluardo di tutela ai fini della distinzione tra il lavoro servile e il lavoro “libero”, nonché strumento per calcolare la corrispettività retributiva.
Un’impostazione che sarebbe poi stata raccolta, di fatto, fino ai tempi moderni, in cui «la quantificazione avviene grazie ad una tecnica normativa di misurazione basata sulla nozione giuridica di “orario di lavoro”» (cfr., V. BAVARO, Tesi sullo statuto giuridico del tempo nel rapporto di lavoro subordinato, in B. VENEZIANI, V. BAVARO (a cura di), Le dimensioni giuridiche dei tempi del lavoro, Cacucci, Bari, 2009, p. 14).
L’assoggettamento ad un orario di lavoro è stato così recepito, anche dalla giurisprudenza più recente, come indice ai fini della qualificazione della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro. Tuttavia, anche se l’orario è qualificabile come indice di subordinazione, esso non è certo utile a identificare o a costituire il rapporto di lavoro subordinato, se non altro per il fatto che oggetto del contratto di lavoro sarebbe, per il Professore, non tanto la mansione, quanto il tempo che il prestatore mette a disposizione della controparte[1]. Del resto, esistono dei rapporti di lavoro non assoggettati alla disciplina dell’orario di lavoro che sono comunque riconducibili al lavoro subordinato, le c.d. prestazioni di lavoro “senza orario”, come ad esempio il lavoro del dirigente d’azienda. Il passaggio è dirimente per cogliere la distinzione tra i concetti di tempo, tempo del lavoro e orario di lavoro che, in un’ipotetica rappresentazione per cerchi concentrici, sarebbero raccolti uno all’interno dell’altro, e in cui il tempo, inteso come dimensione normale dell’agire dell’essere umano e categoria dell’esistenza, costituisce l’insieme principale. Il tempo del lavoro identificherebbe, invece, il periodo in cui il lavoratore dipendente offre la sua prestazione e assicura un’utilità all’organizzazione cui appartiene; ben oltre, quindi, i contorni dell’orario di lavoro come definiti dalla normativa italiana.
L’orario di lavoro è così divenuto – in via convenzionale – strumento e metro di misurazione attraverso cui calcolare e oggettivare il fattore lavoro, se non altro ai fini del calcolo della corrispettività retributiva e dell’individuazione di limiti per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Tuttavia, nato quale strumento di tutela, l’orario di lavoro rischia di rivelarsi limitativo alla luce della trasformazione del lavoro in atto, dell’affermarsi, con la “quarta rivoluzione industriale”,di un nuovo modo di lavorare, di produrre e di retribuire il lavoro. Con il diffondersi dei c.d. “nuovi lavori” e delle tecnologie più avanzate è infatti richiesta in ogni settore, compreso quello della manifattura, una sempre maggiore qualificazione, in cui l’attributo conoscitivo portato dal singolo si rivela una componente determinante della prestazione di lavoro. È chiaro, allora, che l’orario di lavoro si configura come una pura“convenzione” che non avrebbe, secondo il Professore, alcun razionale fondamento nel distinguere ciò che è lavoro da ciò che lavoro non lo è; risulterebbe inutile, in definitiva,ai fini della misurazione dell’utilità che una prestazione di lavoro arreca ad un’organizzazione.Questa “utilità”origina, inoltre, da una crescente richiesta di disponibilità al lavoratore,più volte concessa, ma ad oggi del tutto ignorata dall’ordinamento giuridico, con il rischio concreto – tra l’altro – di una “colonizzazione” del tempo libero da parte dei tempi contrattuali.
La chiave di volta andrebbe quindi individuata in quella utilità organizzativa che diviene «fondamento del valore del lavoro» e che «prescinde dal paradigma quantitativo del valore-tempo calcolato con la nozione di orario di lavoro effettivo» (cfr., V. BAVARO, Produttività, lavoro e disciplina giuridica. Un itinerario sui tempi del lavoro, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, 2009, vol. LX, 2). Un mutamento di paradigma ancor più necessario se si pensa a quanto siano cresciutequelle prestazioni che producono utilità a prescindere dall’orario di lavoro.Si tratta di un fenomeno che nessuna realtà economica, organizzativa e giuridica potrebbe permettersi di ignorare e che andrebbe affrontato con strumenti ed idee nuove, lontane dai dogmi del passato e maggiormente in grado di conciliare le esigenze di tutela e di sviluppo professionale del lavoratore, ma anche di crescita della competitività e produttività delle imprese.
Il discorso, infatti, non è certo slegato dalla sfida per la crescita della produttività che, inesorabile, attende al varco l’Europa e, in particolare, il nostro Paese. Troppo spesso anche i modelli di contrattazione del salario variabile su base collettiva si basano sull’unico postulato dell’ora lavoro, dimostrandosi così inadeguati ad incentivare un incremento reale della produttività del lavoro e andando a premiare una “presenza” non necessariamente produttiva.
Occorrerebbero allora nuovi strumenti di valorizzazione della prestazione di lavoro, in grado di penetrare anche in quegli ambienti in cui risulta più complesso favorire un mutamento di paradigma, dove, ad esempio, i ritmi della produzione sono scanditi dall’orologio di reparto o dal suono della sirena[2]: si tratta di realtà in cui sicuramente emergono, più che in altre, esigenze di tutela della salute e della sicurezza, ma non per questo insensibili a quei mutamenti che, dettati dalla c.d. economia della conoscenza e dall’evoluzione tecnologica,richiederebbero di adottare un approccio innovativo.
Il passaggio concettuale sarebbe quindi quello di riconoscere un peso non solo all’orario di lavoro stricto sensu, ma a tutto il tempo del lavoro contrattualizzato, ovvero quello che una persona mette a disposizione della controparte creando un plusvalore: sarebbe, questo, un elemento che farebbe della regolazione giuridica uno strumento in grado di leggere le trasformazioni in atto nella produzione e nel lavoro.
Quali, concretamente, le possibili soluzioni? La risposta non è certo facile o a portata di mano, sebbene sollecitata dalla realtà in divenire. Alcuni esempi si potrebbero trarre dalla prassi delle relazioni industriali, atteso che la contrattazione collettiva è sempre stata in grado di offrire modelli che, talvolta, hanno anticipato l’intervento del legislatore, dimostrando una rapida capacità di lettura della realtà circostante: e questo, ad esempio, orientando la retribuzione invece che sull’orario di lavoro sul risultato, concetto poi non così lontano da quello di utilità organizzativa sopra descritto. Si pensi ai numerosi accordi sul c.d. “lavoro agile”, che già imperversavano ancor prima che una legge in materia venisse discussa in Parlamento: proprio il lavoro agile costituisce un esempio calzante dell’utilità che alcune prestazioni assicurano all’organizzazione a prescindere da orari fissi e presenza sul posto di lavoro[3].
Sarà la realtà materiale, come suggerito dal professor Bavaro,ad offrire un ventaglio di possibili soluzioni alternative, o complementari,all’orario di lavoro,il quale, nato come baluardo di tutela, rischia di rivelarsi una “gabbia concettuale”, un limite al riconoscimento dell’autentico valore del lavoro. Diviene quindi necessaria una riflessione fondata su basi nuove, che, se anche dovesse muovere da interessi contrapposti, avrebbe l’ambizione, oltre che la necessità, di rispondere concretamente ad esigenze moderne, non più affrontabili proponendo schemi di una realtà ormai superata.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
[1] A favore della sua tesi, il professore cita un’espressione di Mengoni risalente al 1992, per il quale “il prestatore di lavoro mette a disposizione del datore di lavoro il suo tempo in una certa misura convenuta”.
[2]Esemplificativo il passaggio del CCNL dell’industria metalmeccanica che, alla Sezione IV, Titolo III, in materia di orario di lavoro,dice espressamente che “le ore di lavoro sono contate con l’orologio dello stabilimento o reparto”.
[3]Anche in questo caso, a dire il vero, i protagonisti della contrattazione si sono dimostrati piuttosto cauti nell’andare oltre i tradizionali vincoli posti dall’orario di lavoro.