Il lancio di un nuovo servizio di Amazon, denominato Amazon Go ha offerto ai commentatori l’occasione di confrontarsi di nuovo con il tema del lavoro del futuro. È ciò che ha fatto Tim Dunlop, autore di The Future is Workless (qui una intervista a proposito del libro), con un articolo apparso sul giornale The Guardian dal titolo Amazon Go means more than just job losses, it will restructure the economy.
Amazon Go è il servizio di Amazon, per ora disponibile solo per i dipendenti (l’implementazione sul mercato pubblico è attesa per inizio 2017) che consente di effettuare la spesa senza necessità di passare dalla cassa, grazie all’uso di tecnologie che consentono di verificare quali prodotti siano stati presi dal consumatore, così da addebitargli direttamente sul conto una volta lasciato il negozio l’ammontare della spesa.
Si tratta di un servizio che, insieme ad altre trasformazioni tecnologiche in atto, si prevede avrà effetti diretti e indiretti su lavoro e società di grande rilievo.
Il ragionamento che l’autore segue, pur non essendo particolarmente originale, risulta interessante perché ripercorre alcuni topoi della narrativa riguardante il futuro del lavoro.
In sintesi la riflessione ruota intorno ad alcuni punti fondamentali:
Il primo riguarda l’effetto di sostituzione del lavoro dovuto all’automazione, con il rischio di alti tassi di disoccupazione tecnologica. Si tratta di una tematica classica a livello economico, che accompagna la riflessione dottrinale da ormai due secoli: ancora prima di Keynes, era stato David Ricardo ad inizio Ottocento ad esprimersi in tale direzione. Nonostante le previsioni di disoccupazione tecnologica di massa si siano rivelate infondate rispetto alle precedenti ondate di innovazione tecnologica – grazie al cd. capitalization effect, per cui il progresso tecnologico porta ad una aumentata domanda di beni e servizi producendo altri lavori – timori in questo senso sono tornati alla ribalta, anche in forza di alcuni studi predittivi che hanno sottolineato un elevato rischio di computerizzazione del lavoro (il più famoso resta quello ad opera di Frey ed Osborne, datato 2013).
In secondo luogo, l’innovazione tecnologica avrebbe portato ad una modificazione del rapporto tra lavoratore e attività produttive: ad aziende che impiegano i propri lavoratori a tempo pieno e per tutta la vita, tipiche di un mondo a vocazione manifatturiera, si sostituiscono i giganti tecnologici leader di un mondo interconnesso, i cui lavoratori sono per natura contingenti e precari, trattandosi di business che procedono secondo una prospettiva project based.
Da ciò deriverebbe un diverso ruolo dei governi, che più che regolatori dell’attività produttiva ai fini di un patto sociale che abiliti il sistema economico garantendo alcuni diritti ai lavoratori (è la duplice anima del diritto del lavoro, che è diritto di tutela del lavoratore e diritto della produzione), si dovranno concentrare sulla redistribuzione della ricchezza generata, sempre più nelle mani dei pochi giganti tecnologici. Anche la promozione di formazione e innovazione sembrerebbe, infatti, risultare poco efficace di fronte a questi sconvolgimenti. Si giunge così ad un terzo topos, quello della necessità di un reddito di base incondizionato, che assicuri la sussistenza di tutta la popolazione e permetta ai lavoratori di muoversi nel mercato con maggiore libertà, senza le pressioni dovute dalla connessione sussistenza/lavoro. È una prospettiva questa che acquisisce un favore crescente tanto nel mondo politico quanti in quello dottrinale.
Benché entrati nella discussione comune in maniera dirompente, occorre sottolineare come tali ricostruzioni ed argomentazioni non trovino il favore di tutti gli osservatori e come esistano diverse narrative e soluzioni.
Quanto alla disoccupazione tecnologica di massa, non solo risulta allo stato indimostrato che la trasformazione tecnologica sia qualitativamente diversa, quanto ad effetti, rispetto alle precedenti, ma le stesse predizioni sul tasso di sostituibilità sono altamente dibattute, come dimostra l’analisi di Arntz et al., The Risk of Automation for Jobs in OECD Countries, il quale, inoltre, sottolinea opportunamente come una equazione tra rischio di automazione ed effettiva perdita di lavori sia concettualmente errata. Essa, infatti, non tiene conto di 3 fattori in particolare: il già richiamato effetto di capitalizzazione; l’interfacciarsi del fenomeno di trasformazione con fattori di tipo sociale, economico e legale; il possibile re-skilling della forza lavoro.
Una altra equazione su cui occorre riflettere è quella tra nuove modalità di lavoro e precarietà: la precarietà del lavoro non è connaturata alle modalità di lavoro date dalle nuove tecnologie. Tanto le scelte imprenditoriali, quanto quelle legislative influiscono sugli esiti della nuova trasformazione tecnologica. Da un lato, infatti, esistono aziende tecnologicamente avanzate all’interno della gig/on-demand economy che hanno fatto la scelta di assicurare ai propri lavoratori condizioni di stabilità e sicurezza (es. Managed by Q). Dall’altro resta compito dei governi, come sottolinea efficacemente una Costituzione lavoristica come quella italiana, assicurarsi che «l’iniziativa economica privata» seppur libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41 Cost.).
I governi sono, quindi, chiamati ad attivarsi per creare il giusto sistema di regole per ottenere un lavoro sostenibile e abilitare gli operatori che devono occuparsi di integrare tale regolazione nei diversi settori.
Non solo. Contro i rischi di esclusione sociale dovuti ad obsolescenza o carenza delle competenze, ancora più importante può diventare il ruolo dei legislatori, che devono creare il giusto ecosistema normativo, tramite politiche attive e sistemi formativi aggiornati, per garantire che i soggetti possano operare transizioni tra diversi lavori senza pregiudizi. La tecnologia incide sulla possibilità di costruire una carriera all’interno di una azienda o un settore, ma non su quella di costruire percorsi professionali coerenti con le aspirazioni dei singoli.
Nonostante si ritengano importanti interventi atti ad assicura la sussistenza di tutte le persone, soprattutto quando non siano in grado di provvedere al proprio mantenimento perché impossibilitate alla partecipazione al mercato del lavoro, esistono, quindi, alternative ad un reddito di cittadinanza che permettano di rispondere alle sfide della trasformazione tecnologica del lavoro che prendano in considerazione le differenti dimensioni del lavoro nella nostra società. Esso, infatti, non è solo fonte di reddito (dimensione strumentale del lavoro), ma è anche avvertito come un dovere dai soggetti al fine di una attiva partecipazione alla società (etica del dovere) e come una forma di espressione di sé (dimensione espressiva del lavoro) (si veda D. Méda, The future of work: The meaning and value of work in Europe).
Il lavoro ha, quindi, un fondamentale ruolo nella costruzione dell’identità dell’essere umano: una riflessione seria sull’opportunità di un reddito di base deve tener conto anche di questo.
Infine, che si aderisca ad uno scenario sul futuro del lavoro piuttosto che ad un altro, è sempre fondamentale ricordare come tecnica e tecnologia, al pari del diritto, non sono fattori che si autodeterminano, ma sono frutto della cultura di una società. Essa non è quindi meramente soggetta agli input che riceve da questi, ma concorre e deve concorrere a costruire le regole e ad orientare le tecnologie verso i propri migliori interessi.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo