Il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sostiene che le attività di ricerca e innovazione siano la leva per recuperare la produttività che in Italia è in crescita debole da vent’anni. Può commentare questa affermazione?
Concordo, ma la produttività complessiva deriva anche dalla composizione della struttura del sistema economico, non solo degli investimenti in ricerca e sviluppo. Ragionare sui guadagni di produttività in settori maturi significa ragionare spesso su un tipo di produttività incrementale mentre nei settori innovativi la produttività cresce a elevati tassi di sviluppo. In Italia negli anni passati c’è stato un forte sforzo per ridurre e contenere i costi del lavoro e ci si è focalizzati sulle innovazioni di processo e poco si è ragionato in termini di competitività del prodotto finale in relazione alle sue caratteristiche e performance. Su quest’ultimo punto, il ruolo della ricerca e della capacità di trasformare la ricerca in innovazione diventano chiave.
L’Italia continua a registrare un notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei in termini di investimenti nei settori della ricerca e dell’innovazione. Questo ritardo è attribuibile alla poca attività di ricerca realizzata nel settore privato?
Il settore privato in Italia appare “debole” secondo due punti di vista: da un lato la finanza, il mercato del capitale di rischio è piccolo soprattutto rispetto ai competitors/partner europei. Occorre che cresca un capitale paziente e diffuso nei territori. Inoltre vi è una scarsa propensione reale al supporto all’innovazione da parte di imprese medio grandi che solo ultimamente sono più disposte a collaborare con le start up e con le Pmi, un atteggiamento che in altri Paesi è più diffuso. Resta poi il tema della capacità di stimolare percorsi di valorizzazione dei risultati di ricerca in ottica di trasferimento tecnologico e di fare crescere le relazioni virtuose tra Ricerca e Industria.
Stando ai dati Eurostat, l’Italia è uno dei paesi sviluppati con il minor numero di ricercatori. Secondo l’OCSE ciò dipende essenzialmente dalla quota molto bassa di ricercatori che lavorano nelle imprese e nel settore privato. È d’accordo?
Io su questo non sono d’accordo, nelle imprese c’è molta ricerca anche se a volte non istituzionalizzata. Occorre specificare cosa intendiamo per ricerca. Ricerca di base nelle imprese ce n’è molta poca perché è il compito dell’università aumentare lo stock di conoscenza. Nelle imprese c’è molta capacità di fare innovazione incrementale cioè di andare a migliorare in modo incrementale un prodotto o un processo o un servizio, e meno frequentemente rivoluzionaria. C’è molta ricerca applicata nelle imprese farmaceutiche, biomedicali e aerospaziali, e in genere nei settori innovativi, mentre nelle imprese meccaniche e nelle imprese dei settori cosiddetti “tradizionali” è meno visibile, non è formalizzata ma esiste, ed è chiaro che spesso si fa in collaborazione con le stesse università.
Che cosa intende per ricerca non formalizzata?
Voglio dire che in molte imprese non esiste il dipartimento ricerca e sviluppo, ma i processi innovativi avvengono in modo informale, non codificato, spesso direttamente catena di montaggio oppure attraverso innovazioni di tipo organizzativo. Esiste una dinamica innovativa che pervade obbligatoriamente l’impresa. La competitività delle Pmi in Italia consiste proprio nella loro capacità di mutare in continuazione adattandosi e anticipando il cambiamento. La capacità del piccolo di improvvisare è qualcosa che il grande non ha o realizza con difficoltà. Considerato che la quantità di progetti collaborativi imprese–università è rimasta praticamente costante negli ultimi anni, mentre la competitività delle imprese italiane soprattutto in certi settori è cresciuta, deduco che le imprese facciano ugualmente innovazione al loro interno, anche senza università e anche in modo non formalizzato.
Se non mancano ricerca e ricercatori, cosa ostacola l’innovazione in Italia?
In generale mancano cultura, visione e professionalità. In Italia esistono molte istituzioni che si occupano di creare collaborazioni tra pubblico e privato e di massimizzare l’impatto dei risultati della ricerca, dagli uffici di trasferimento tecnologico nelle università, agli incubatori, ai parchi scientifici. Il problema è che questi soggetti non sempre hanno una visione basata sui risultati in termini di crescita, ma hanno a volte un approccio meramente quantitativo alla ricerca. I criteri di valutazione utilizzati sono spesso i dati di input (es. numero di imprese, numero di business plan) e non indicatori di crescita prospettica e di impatto sulla crescita dei sistemi territoriali in cui le imprese insistono. Ove si valutano indicatori di performance, questi al contrario sono estremamente tradizionali (numero di imprese, numero posti di lavoro, fatturato ad esempio, tre indicatori che per una start up innovativa forse non hanno molto senso). Si comprende se una start up è di successo se crea valore economico, non necessariamente se ve ne sono molte o creano posti di lavoro. Occorrono indicatori qualitativi, andare sulla qualità significa ragionare su persone, pratiche, risultati, competenze e valore creato, non solo sui numeri.
Oggi le piccole imprese che vogliono fare attività di ricerca e sviluppo come fanno? Devono per forza affidarsi all’Università o ai centri di ricerca oppure esternalizzeranno la ricerca, come ipotizza qualcuno, attraverso le start-up?
Non necessariamente, possono fare ricerca tra di loro, esistono dei contesti in cui le imprese lavorano con modelli di cooperazione–competizione (la cosiddetta coopetition). Esistono anche degli ambienti, dei cluster in cui l’incrocio università e imprese viene moderato da organismi di interfaccia. Ci sono certamente dinamiche di esternalizzazione che caratterizzano le relazioni impresa-università, ma occorre distinguere l’esternalizzazione di un servizio (solitamente di analisi o caratterizzazione, più raramente di testing) dall’attività di ricerca cooperativa vera e propria che porta poi a un brevetto o un’innovazione che viene poi acquistata, internalizzata dall’impresa. Spesso molti contratti di ricerca con l’università nascondono un servizio a favore delle imprese che si rivolgono a loro perché costa meno che fare ricerca in-house.
L’ostacolo principale per le imprese che vogliono fare attività di ricerca e sviluppo è di matrice culturale. Per fare innovazione occorre una visione del mondo poco gerarchica, molto propensa al rischio, propensa a correre dei rischi calcolati, molto seriale e quindi in grado di ricominciare, di superare l’”onta” del fallimento, molto poco formale nelle azioni: in una parola, fluida.
Può fare un esempio?
Molti manager di impresa che incontro sono poco propensi al rischio, molto attaccati ai tradizionali approcci gerarchici nella gestione aziendale e questo anche in aziende molto innovative. La “colpa” dov’è? C’è un problema formativo iniziale, non si parla di imprenditorialità nelle scuole. Fare imprenditorialità non significa diventare imprenditori e fare impresa, significa avere un approccio gestionale verso qualcosa. Reiterare la mentalità tradizionale nei settori innovativi significa perpetuare modelli culturali gerarchici e ostacolare la crescita dinamica dell’impresa. Questo aspetto non è legato all’età, ma è legato a un contesto in cui il modello comportamentale vincente è quello tipico del manager di successo, permettetemi la semplificazione, che guadagna tantissimo ma rischia poco o fa rischiare solo l’imprenditore.
Modelli organizzativi e di management ormai superati sono fattori che ostacolano la capacità di innovare delle imprese?
L’Italia ha un modello di capitalismo familiare popolato di microimprenditori e in cui tradizionalmente gli imprenditori di successo creano dinastie familiari. Una tradizionale struttura gerarchica basata sul capitalismo familiare è ottima in impianti produttivi dove tutto viene pianificato e il lavoro è standardizzato. Ma dove le problematiche sono più complesse (ad esempio nel passaggio generazionale o in modifiche del modello di business o dei mercati) occorre integrare competenze esterne: qui entra il gioco il management che può configurarsi come funzionale non solo alla gestione ma anche al cambiamento. Il problema non è il cambiamento in sé, ma la resistenza, l’attrito che si crea nel momento in cui si cerca di cambiare. Se l’impresa punta a stimolare innovazione e ricerca ma parallelamente non cerca di stimolare dinamiche manageriali più propense al rischio, allora non capitalizza gli investimenti fatti in ricerca.
Le università sono aperte alla collaborazione con il settore privato nell’ambito di progetti di ricerca?
Notoriamente le università hanno “fame” di risorse e sono disposte a collaborare. Vorrei però distinguere l’università come istituzione dai singoli docenti: spesso le dinamiche collaborative impresa-università si basano su relazioni personali degli imprenditori con singoli docenti, non tanto su un’attività, mi lasci dire, imprenditoriale dell’università che tenta di valorizzare le proprie competenze e i propri risultati di ricerca, piuttosto sul fatto che un docente conosce un’impresa. Questa dinamica che non è forse molto studiata e peraltro è un elemento critico del sistema del trasferimento tecnologico italiano e anche un po’ la spiegazione di perché il fenomeno del trasferimento tecnologico in Italia non funziona forse così bene.
Può approfondire questo aspetto con un esempio?
Secondo la teoria delle transazioni di Williamson, in buona sintesi, se una cosa è episodica e costa poco perché devo istituzionalizzarla? La lascio alla libera contrattazione. Ciò che sta succedendo con il trasferimento tecnologico in Italia è esattamente questo. Gli uffici di trasferimento tecnologico sono spesso degli uffici burocratici e si occupano del trasferimento di brevetti. Poi quello che succede a un brevetto depositato non è il frutto di un’attività di business mirato alla massimizzazione del risultato, ma spetta al singolo inventore arrivare a identificare un’azienda interessata attraverso la sua rete di relazioni personali. Chiaramente ciò è ancora una volta una semplificazione dell’esistente ma se al contrario l’attività viene “professionalizzata”, “istituzionalizzata” e “valorizzata” la stessa teoria di Williamson ci dice che questa stessa attività deve essere internalizzata e costruita in modo da essere efficiente ed efficacie.
All’estero gli uffici di trasferimento tecnologico che ruolo rivestono?
In Italia gli uffici di trasferimento tecnologico non sono valutati sul risultato economico, come ad esempio negli Stati Uniti, dove il performance indicator degli uffici di trasferimento tecnologico misura la quantità di denaro che questi portano all’università attraverso la vendita dei risultati della ricerca. Questo è un aspetto importante perché attraverso quel denaro l’università finanzia altra ricerca. Chiaramente la mentalità americana è più orientata al profitto rispetto a quella italiana, però una cosa è vera: l’indicatore di successo del trasferimento tecnologico non lo misuro in base al numero di brevetti, bensì sui brevetti che diventano valore per qualcun altro, ossia quando dalle università li riesco a trasferire al mercato e alle imprese che poi a loro volta riescono a creare valore per la società.
Manca quindi un dibattito sull’impatto della ricerca e dei brevetti sull’economia e sulla società?
È vero, ma la valutazione è complessa perché l’impatto del brevetto lo osservo dopo alcuni anni. Si possono utilizzare però delle buone proxy. Per esempio, il valore del brevetto, cioè quanto il mercato è disposto a pagarlo, è una proxy perché ho trasferito al mercato un valore economico. In Italia non esiste, mi sembra, una statistica sulle royalties delle università per i brevetti dati in licenza. Il difficile è quindi passare dagli indicatori di input ad altri che misurino il valore creato dalla ricerca. Spesso non abbiamo la più pallida idea di cosa succede al brevetto quando viene depositato. Iniziare a lavorare nella direzione della valutazione di impatto della ricerca e dei brevetti prodotti è una buona strada, meglio ancora contaminare gli uffici di trasferimento tecnologico delle università con competenze industriali e imprenditoriali. Negli uffici di trasferimento tecnologico delle università degli Stati Uniti, ad esempio, solitamente non c’è personale dell’università, ma ci sono persone di provenienza industriale, non universitaria.
Quanti ricercatori operano presso BioIndustry Park?
Nella nostra impresa ce n’erano 13 su 36, in questo momento il ramo di azienda laboratori è in corso di cessione. Tutt’ora nel mio gruppo composto da circa 20 persone ho 4-5 persone, di età molto giovane (in media una trentina d’anni) con il dottorato di ricerca che operano come trasferitori di tecnologie e i valutatori di tecnologie Uno degli stereotipi che esistono è che uno che opera come il ricercatore debba fare il ricercatore per tutta la sua vita: ancora una volta il modello statunitense insegna; il ricercatore molto bravo è il ricercatore che sa muoversi in orizzontale, non solo in verticale. Chiaramente nelle imprese insediate nel parco i numeri sono diversi.
Conoscete e utilizzate l’apprendistato di alta formazione e ricerca e i dottorati industriali?
Sì, già noi come parco abbiamo due di dottorati in apprendistato di alta formazione, uno nel campo della ricerca e uno in campo organizzativo. All’interno del parco le imprese grandi utilizzano questi strumenti contrattuali mentre le medio piccole non tanto. Meno sono le esperienze di apprendistato di ricerca. Credo che questi strumenti contrattuali siano utili nella misura in cui si riesca anche a creare le condizioni per una migliore valorizzazione del risultato della ricerca. Occorre pensare una figura del ricercatore industriale che rivesta anche un ruolo riconosciuto nella società contribuendo attivamente alla soluzione di un problema di natura sociale. Nelle start up è spesso già così mentre in una impresa medio grande a volte no. Le imprese certo possono essere “eticamente” interessate a risolvere problemi sociali, ma sono anche e soprattutto orientate a vendere prodotti.
Avete la percezione che nel vostro settore ci sia un “gap” di competenze tra quelle che richiedete per svolgere le attività/mansioni all’interno dell’azienda e quelle di cui i candidati che selezionate sono in possesso?
Nel mio campo che riguarda le scienze della vita, le competenze tecniche esistono. Quel che manca in Italia sono spesso le doppie competenze, ovvero persone che hanno un background scientifico e contemporaneamente una forte sensibilità manageriale. Quelle trasversali poi spesso non esistono e quello deriva dal modello formativo italiano che è un modello spesso basato sul concetto dei “silos”, cioè ogni campo disciplinare è un silos un po’ separato dagli altri. Noi facciamo un’analisi sulle esigenze e sui fabbisogni professionali del parco e delle imprese insediate circa una volta l’anno. Esiste un interesse sempre più crescente su competenze e risorse in grado di operare in mercati internazionali o in team multiculturali. Molte imprese stanno cercando questi profili doppia competenza a cui far fare il project manager, il business developer, il gestore di brevetti e sono figure che sono rare, non si trovano.
Occorre quindi che la legge o contrattazione collettiva valorizzino lo status e il ruolo del ricercatore nel settore privato?
Sicuramente ha senso valorizzare la figura del ricercatore, ma il rischio di una legge è imbrigliare una figura che per definizione è fluida. Mia paura è che un eccesso di regolamentazione porti a un eccesso di irrigidimento. Varrebbe la pena da un lato avere una sorta di carta nazionale dei ricercatori e dall’altro utilizzare la carta per andare a influenzare i singoli contratti settoriali. Uno strumento più soft di inquadramento che diventi un input rigido per i contratti collettivi nazionali. Secondo me all’interno dei contratti collettivi nazionali di settore esistenti ha senso inserire esplicitamente la figura del ricercatore e valorizzarla, fare un contratto a sé per una azienda vuol dire invece avere eventualmente più contratti attivi, come già succede, e avere personale che potrebbe avere trattamenti diversi.
Il piano Industria 4.0 parla di competence center e digital innovation hub senza tuttavia fare riferimento a poli tecnologici, parchi scientifici e centri di ricerca. Quale ruolo avranno questi nella quarta rivoluzione industriale? Saranno coinvolti? Superati? Messi a margine? Rilanciati?
Il mio timore è che allo stato ci siano dei piani disegnati senza considerare l’esistente, ammesso che l’esistente possa essere utile, né si comprende cosa realmente si voglia all’interno di questi nuovi soggetti. In Italia esistono già fenomeni aggregativi in cui si valorizza molto la capacità dei soggetti sia di lavorare assieme che di fare ricerca e innovazione, come i cluster tecnologici a livello nazionale o i poli di innovazione a livello regionale, La mia impressione è che ci si creda ancora troppo poco, ma sono dinamiche che stanno emergendo. Occorre valorizzare quello che già esiste mettendolo in rete o aggregandolo come fanno già da tempo all’estero sulla base del criterio dei mercati di sbocco, ad esempio alimenti, salute, mobilità, puntando su quelle che vengono definite le grandi missioni, piuttosto che sulle tecnologie o sui settori. Un esempio: perché non considerare internet all’interno del settore mobilità? Io posso con una teleconferenza sostituire un viaggio. Se ragionassimo in termini di problemi da risolvere ci dimenticheremmo i silos settoriali per individuare di concerto le soluzioni alle grandi sfide sociali. Il pubblico dovrebbe raccogliere e identificare delle macro priorità, lasciando invece le priorità specifiche al mercato, valorizzando la frammentazione del nostro sistema economico che non è solo un difetto ma anche una risorsa.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT – Università degli Studi di Bergamo