La disoccupazione giovanile torna, dicembre 2016, a superare il 40%. Tra i giovani tra 15 e 24 anni circa il 27% è attivo sul mercato del lavoro, cioè è occupato o cerca attivamente lavoro: tra questi, il 40,1% è disoccupato.
Per quanto riguarda il 25-34enni, l’occupazione cresce e si attesta al 60,5% mentre la disoccupazione è al 17,8%, un numero comunque altissimo per una fascia di età in cui dovrebbe concludersi la transizione verso una posizione stabile sul mercato del lavoro.
Per avere un’idea della gravità di questi numeri, che l’Istat ci ha fornito nei giorni scorsi, possiamo compararli con altri paesi europei. Senza avere la pretesa di raggiungere i risultati dei paesi più virtuosi – il tasso di disoccupazione giovanile in Germania, che come noto ha un sistema di transizione del tutto particolare, è del 6,6% – siamo comunque lontani anche dalla media europea: secondo gli ultimi dati della labour force survey di Eurostat, la disoccupazione giovanile si attesta al 20,9% nell’area euro e al 18,6% nell’Unione Europea. Sebbene la distanza dell’Italia dagli altri paesi europei sia consistente anche per quanto riguarda il tasso di occupazione generale, colpisce la differenza enorme tra classi di età.
Una differenza che non si spiega totalmente in base alle dinamiche demografiche. Per la prima volta l’Istat stima della variazione dell’occupazione al netto della componente demografica, ossia nell’ipotesi di invarianza della popolazione rispetto a 12 mesi prima.
A dicembre 2016, la performance occupazionale delle persone di 15-34 anni risulta positiva (+27 mila occupati stimati al netto degli effetti demografici) e la variazione negativa osservata tra gli occupati (-19 mila) risulta interamente determinata dal calo della popolazione in questa classe di età. Tuttavia, se si considerano le per le performance occupazionali al netto della componente demografica a partire da gennaio 2015, l’andamento della classe di età 15-34 risulta altalenante.
La nuova misura della variazione dell’occupazione al netto della componente demografica dice che la situazione è più complessa di quello che sembra. Una cosa, però, è certa: indipendentemente dalle variazioni mensili o trimestrali, i dati sull’occupazione giovanile continuano ad essere drammatici.
Non deve essere fatto l’errore, però, di pensare che non esista una soluzione. E’ vero che la disoccupazione giovanile nasconde problemi strutturali e profondi nel tessuto economico e nelle dinamiche di transizione scuola-lavoro nello specifico. Ha ragione Marro quando scrive sul Corriere della sera che ci troviamo di fronte ad “un quadro di luci ed ombre che non mostra vie di uscita, in particolare per i giovani”. Ma iniziare a costruire queste vie d’uscita non solo è doveroso, ma è anche possibile.
E’ doveroso perché i numeri ce lo impongono e perché esiste una vera e propria “emergenza sociale”. Ma soprattutto perché i giovani rappresentano un enorme potenziale che questo paese non valorizza. Con la quarta rivoluzione industriale, i giovani, che sono strutturalmente più adatti a rispondere al cambiamento, sono le persone su cui scommettere per far sì che la trasformazione tecnologica venga non subita ma sfruttata al meglio dal sistema economico e possa anche apportare benefici alla qualità della vita e in generale al progresso delle società.
Per questo, è vietato rassegnarsi. E’ possibile, dicevamo, affrontare il problema della disoccupazione giovanile in maniera seria, anche se non è facile, e soprattutto non basta una politica a breve termine. Il fatto che non si vedranno i risultati nel breve termine di un ciclo elettorale, non può giustificare un’arrendevolezza che poi ricade sulla vita reale di una parte della popolazione. Bisogna smettere, e soprattutto la politica dovrebbe smettere, di rassegnarsi ai problemi più grandi, e cercare invece di affrontarli, con coraggio, conoscenza e sguardo di lungo periodo.
Sono necessarie politiche di lungo periodo: sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, il nostro paese ha dei problemi con radici molto profonde. Un sistema di istruzione che soffoca per la mancanza di finanziamenti, che fatica a garantire un’istruzione di alta qualità e che non trova dialogo con il mondo del lavoro. Un tessuto produttivo che non innova e non investe nella formazione dei giovani, che potrebbero in cambio dare una nuova linfa vitale al sistema economico. Queste cose non si cambiano con una singola politica, ma con un disegno di lungo periodo che abbia l’ambizione di agire sull’impianto culturale e sociale del paese.
Però un monito serve anche sul breve periodo ed è proprio l’Europa che ce lo fa, chiedendoci una manovra correttiva 3,4 miliardi – 3,4 miliardi che, ironia della storia, sono proprio il costo che abbiamo sostenuto nel 2015 per la decontribuzione.
Non penso che l’austerity sia la via per uscire dalla crisi e far tornare l’economia a crescere in maniera decisa, l’Europa del 3% non mi appassiona. Però penso anche che, se si vuole chiedere più flessibilità all’Europa ed utilizzare la spesa pubblica per aiutare il paese a ripartire, allora sia doveroso utilizzare i (pochi) fondi disponibili per misure che abbiano un impatto sistemico e strutturale, e non per “drogare” il mercato del lavoro o peggio ancora per ottenere consensi a breve termine. E no, non lo dobbiamo all’Europa: lo dobbiamo soprattutto ai giovani italiani: la scelta di rompere l’equilibrio di bilancio è coraggiosa solo se serve a cambiare le condizioni nel lungo periodo, sennò è da irresponsabili proprio nei confronti delle generazioni future, che oltre a vedere gli stessi problemi che si ripropongono, e anzi si acuiscono, dovranno anche sostenere un maggiore debito pubblico.
Chiara Mancini
ADAPT Junior Fellow