Centinaia di imprese manifatturiere negli Stati Uniti stanno riportando i loro stabilimenti industriali vicino casa dopo aver delocalizzato, in tutto o in parte, le loro attività all’estero. È il fenomeno del c.d. backshoring (o rilocalizzazione), ossia la ricollocazione delle linee produttive manifatturiere verso il territorio d’origine della casa madre. Con un certo tono trionfalistico, Joey Von Nessen, economista della University of South Carolina, ha dichiarato a tal proposito “We are definitely seeing manufacturing jobs come back to the U.S.“.
La precedente fase di internazionalizzazione delle imprese americane era infatti basata sul semplice obiettivo di ridurre i costi di produzione con la delocalizzazione degli stabilimenti di proprietà oppure con l’affidamento di fasi del processo a fornitori stranieri. I paesi in via di sviluppo offrivano un contesto economico più competitivo rispetto a quello occidentale grazie al basso costo (locale) del lavoro. Il mercato del lavoro era sbilanciato dal lato dell’offerta nella misura in cui vi era una gran quantità di manodopera disoccupata, senza tutele, priva di rappresentanza sindacale e, in quanto tale, disposta a lavorare per un salario bassissimo. Le imprese trasferivano sulla base di questi e altri motivi la produzione fuori dai confini nazionali al fine di ottenere, a parità di tutte le altre condizioni, un aumento del volume dei profitti e una riduzione dei costi di gestione delle risorse umane.
Oggi che anche in Cina le retribuzioni sono cresciute e si è ormai formata un’ampia classe media, il costo del lavoro di questi paesi non costituisce più una fonte di vantaggio competitivo. Al contrario, per le imprese americane, la complessità e la difficoltà di gestire una global supply chain potrebbe diventare un potenziale fattore di peggioramento dell’efficienza organizzativa, di aumento dei costi transattivi legati alle spedizioni e di rallentamento nella capacità di monitorare la performance. Per questo, molte imprese hanno deciso di fare dietro front rimpatriando le attività produttive al fine di ridurre soprattutto i costi della logistica e la durata del time-to-market. Gli effetti economici sul territorio verso il quale è attivato il processo di backshoring è ovviamente una riduzione della disoccupazione e un aumento della domanda interna (ovvero, la spesa per consumi e per investimenti).
Un recente articolo del Washington Post (Washington Post, Manufacturing jobs are returning to some places. But these jobs are different) ha messo in luce come gli Stati Uniti abbiano registrato negli ultimi anni il maggior numero di rientri di produzione (151, di cui il 60% dalla Cina) rispetto ai competitor internazionali al quale si associa peraltro un aumento non trascurabile di posti di lavoro, circa mezzo milione dal 2011, a fronte di una perdita complessiva di occupazione nello stesso periodo pari a sei milioni. Il dato che emerge però è che il maggior numero di rimpatri ha interessato soprattutto i settori (capital intensive) della manifattura avanzata più esposti alla concorrenza internazionale. Se, ad esempio, il comparto dell’abbigliamento ha avuto una consistente perdita di posti di lavoro (dal 2008 a oggi, -6%), l’occupazione nella produzione di macchinari industriali e mezzi di trasporto ha invece registrato un risultato positivo (dal 2011 a oggi, +13%).
L’aumento occupazionale dei settori capital intensive deriva dal fatto che il nuovo modo di produrre richiede alle imprese da un lato tecnologie ad altissima intensità di capitale e, dall’altro, una forza lavoro estremamente flessibile, competente e performante: l’organizzazione del lavoro deve essere sistematicamente allineata all’andamento effettivo della domanda. Come hanno dimostrato Kupper et al. (Kupper et al., Productivity now. A call to action for US manufacturers, Boston Consulting Group, dicembre 2016), l’applicazione delle nuove tecnologie digitali alla manifattura ha infatti disarticolato la precedente organizzazione del lavoro tayloristica fondata sulle economie di scala e sulle mansioni standardizzate, introducendo una concezione flessibile e snella della produzione nella quale è il consumatore a dettare cosa e quanto produrre. L’ingresso del consumatore nel ciclo produttivo è stata difatti una tra le determinanti fondamentali del backshoring americano perché le imprese hanno dovuto rispondere con più efficienza e tempestività alle richieste di mercati sempre più turbolenti. Più il rapporto tra consumatore e impresa diventa diretto e immediato, più le imprese sono costrette ad organizzare la produzione vicino alla domanda effettiva, pena l’uscita dal mercato.
La riduzione sistematica del time-to-market è diventata quindi non tanto una esigenza di competitività delle imprese, quanto una condizione stessa per la loro sopravvivenza nel mercato. Per fare un esempio, alla Harley-Davidson un cliente può progettare e configurare da casa la propria moto prima di acquistarla attraverso una semplice simulazione 3D. I tempi di consegna sono pressoché azzerati: in passato, il tempo minimo per ricevere il prodotto erano 21 giorni; ora, una volta acquistato, il prodotto è disponibile dopo appena sei ore. È evidente allora quanto le nuove tecnologie digitali e soprattutto la complessità di gestire una logistica internazionale abbiano avuto un peso fondamentale nelle strategie di backshoring.
Le nuove strategie di backshoring puntano infatti non solo alla quantità, ma anche alla qualità e complessità dei prodotti, al know-how delle maestranze specializzate, all’innovazione tecnologica, alla formazione, alla ricerca e sviluppo e alla qualità delle relazioni industriali. Tutti fattori difficilmente replicabili in contesti dove la forza lavoro è scarsamente qualificata e il capitale organizzativo è di ridotte dimensioni. La manifattura avanzata richiede infatti una forza lavoro caratterizzata da elevata professionalità, con competenze tecniche complesse, problem solving, proattività, flessibilità e adattabilità.
Nel nuovo paradigma produttivo, il prestatore di lavoro non svolge più mansioni routinarie a basso contenuto cognitivo dal momento che le sue attività richiedono sempre più creatività, tempestività, ideazione e progettazione (F. Seghezzi, Lavoro e relazioni industriali in Industry 4.0, wp n.1/2016, Adapt University Press). Di conseguenza, il presupposto sul quale si era edificato il vecchio modello delle delocalizzazioni è venuto meno nella misura in cui la manifattura avanzata ha ora il suo architrave organizzativo non più nel unskilled labour e nella catena di montaggio gerarchizzata, bensì nella partecipazione cognitiva, nella polivalenza dei team di lavoro (i c.d. cross-functional team) e, soprattutto, nella centralità del capitale umano come motore di crescita e sviluppo.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo