Ha avuto coraggio, l’Anpal di Maurizio Del Conte, a debuttare nella sua attività di politiche attive del lavoro scegliendo come primo banco di prova il caso Almaviva. Non solo perché in Italia la pratica di ricollocamento di lavoratori disoccupati è una assoluta novità: lungamente teorizzata, e’ vero, ma mai passata concretamente dalle enunciazioni di principio ai fatti, in un sistema che storicamente si basava, piuttosto, su ammortizzatori sociali ‘’passivi’’ come la cassa integrazione. Quindi, una strada nuova, tutta da sperimentare sul campo, con tutte le incognite del caso.
Ma il coraggio sta anche nelle caratteristiche della vertenza stessa, nata dalle difficoltà economiche di Almaviva, poi trascinatasi troppo a lungo, e infine risoltasi -o meglio, non risoltasi- con il licenziamento di 1.666 dipendenti della sede romana giusto alla vigilia di Natale, e con conseguente doloroso strascico di polemiche pubbliche e di privatissime disperazioni dei licenziati. I quali, oltretutto, sono tra i più difficili da ricollocare: età media avanzata, curricula poveri, titoli di studio che raramente superano la terza media, come ha spiegato Del Conte giovedì mattina, illustrando il piano studiato assieme al ministero del Lavoro e alla Regione Lazio.
Il piano dell’Anpal punta sulla formazione come primo passo verso il reimpiego, destinando 15 mila euro per ciascun lavoratore, così suddivisi: alle società che formeranno il lavoratore andranno fino a 2mila euro; alle società di collocamento, ma solo nel caso di esito positivo del percorso, un assegno di ricollocazione fino a 5mila euro; altri 8000 euro, infine, alle aziende che assumeranno lo stesso lavoratore con contratto a tempo indeterminato. In alternativa, il piano offre anche incentivi per l’autoimpiego, fino a 18mila euro a ciascun lavoratore, e infine risorse per la ricollocazione degli over 60, fino a 10mila euro a testa per l’accompagno verso un lavoro di pubblica utilità. I lavoratori formati saranno poi indirizzati verso impieghi in linea con la loro preparazione e con le competenze acquisite, attraverso una rete di sportelli dedicati messa a disposizione dalla regione Lazio. Un percorso articolato, dunque, che si propone di uscire dalla logica della difesa del posto di lavoro per entrare in quella della difesa del lavoratore stesso: un cambio di prospettiva che si proponeva di essere uno dei cardini del Jobs Act, ma che fin qui non era mai stato nemmeno avviato.
Ma il caso Almaviva rappresenta in qualche modo anche uno spaccato del nostro paese: popolato da persone sempre più anziane (ce lo ripetono ogni anno i dati Istat) poco istruite (la terza media e’ anche il titolo più diffuso nella popolazione), e poco formate. E questo, occorre dirlo, anche per l’incuria delle nostre stesse aziende, maggiormente attente a ridurre il costo del lavoro che a investire nella crescita del proprio capitale umano. Un errore grave, che oggi rischia di essere mortale per tutto il sistema Italia. Lo spiega bene l’economista Enrico Moretti, docente all’università californiana di Berkeley, nel suo studio sui ‘brain hubs’’: dove c’e’ maggiore formazione e istruzione, c’e’ anche maggiore occupazione, salari più alti, produttività elevata. Al contrario, con basse scolarità e formazione si riscontrano anche bassa produttività, bassi salari (anche per le qualifiche alte) e progressiva disoccupazione e deindustrializzazione. Richiesto nei mesi scorsi di indicare in quale fascia si trovi l’Italia nella sua mappa dei “brain hubs”, Moretti ha ammesso di averla collocata in coda alla classifica.
E qui arriviamo alla terza considerazione generale che si può legare al caso Almaviva, e cioè l’innovazione tecnologica e le sue conseguenze. Il mondo dei call center e’ a bassa specializzazione, quindi molto esposto alla concorrenza. Non ci vuole molto per aprirne uno, bastano due cuffie, qualche linea telefonica e molta manodopera. Almaviva e’ un colosso nel settore, ha 45 mila dipendenti, di cui 12 mila in Italia, opera a livello globale e ha sedi in tutto il mondo, e tuttavia subisce una crisi che si spiega con la concorrenza sleale dei competitor collocati in paesi dove il costo del lavoro e’ piu’ basso. Ma c’e’ anche un altro fenomeno, meno osservato ma che varrebbe la pena di considerare, e riguarda la tendenza a trasferire sempre più sul web il lavoro ‘’umano’’ fin qui eseguito dai call center. Oggi i numeri verdi aziendali possono ormai essere bypassati dagli utenti, ricorrendo direttamente a internet, o addirittura ai social network, come Twitter e Facebook, dove le aziende aprono account di assistenza ai clienti attivi H24. Quanto ci vorrà perché la ‘’voce umana’’ diventi obsoleta e il mondo dei call center richieda professionalità del tutto diverse, e più specifiche, che saper rispondere a un centralino? Forse un paio di anni, forse meno. Intanto, può essere utile sapere che all’Università di Stanford e’ da qualche tempo attivo un master che insegna ai manager come rivoluzionare l’organizzazione del lavoro attraverso la tecnologia. Costo del corso, 8 mila dollari: meno di quanto costerà ricollocare i dipendenti ex Almaviva.
Il futuro e’ questo, e dobbiamo farci i conti. Dunque, buon lavoro all’Anpal: non possiamo che augurarci che la sua ricetta funzioni, altrimenti sarà ancora più dura per tutti.