Il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sostiene che le attività di ricerca e innovazione siano la leva per recuperare la produttività che in Italia è in crescita debole e negativa da vent’anni. Può commentare questa affermazione?
Questa affermazione è certamente condivisibile, credo però che non ci si debba focalizzare esclusivamente su questo tema, ma anche ragionare su come creare le condizioni favorevoli affinché l’investimento in ricerca generi valore attraverso l’innovazione, ovvero generi quella produttività di cui abbiamo bisogno. Da noi mancano le condizioni al contorno: va bene seminare, ma se si vuole raccogliere si deve anche fertilizzare e curare il terreno. E’ indispensabile investire nella ricerca e in particolare in quella industriale e applicata, ma occorre individuare tematiche di ricerca prioritarie i cui risultati trovino più rapidamente applicabilità e sbocchi di mercato se vogliamo apprezzarne i risultati nel medio periodo. Secondo me nel nostro Paese mancano la cultura di impresa e l’educazione imprenditoriale. Siamo all’ultimo posto in Italia per numero di laureati e l’OCSE ci dice che lo saremo per i prossimi quindici anni. Siamo agli ultimi posti per spirito imprenditoriale anche a livello mondiale. La mia risposta alla affermazione di Draghi è sì, con convinzione, ma a mio avviso occorre lavorare molto anche sulle condizioni al contorno. Educazione imprenditoriale anche nelle scuole superiori (noi in Friuli Venezia Giulia stiamo supportando l’iniziativa di educazione imprenditoriale Junior Achievement e lo scorso anno abbiamo coinvolto più di 1200 studenti) e nelle università in primo luogo (con l’Università di Udine abbiamo organizzato incontri con gli studenti di tutti i corsi di laurea), ruolo delle università nello sviluppo economico dei territori, azioni concrete per favorire il dialogo, anzi la collaborazione tra imprese (ricordandoci che l’Italia è fatta di piccole e medie imprese, in generale più piccole delle piccole e medie imprese europee) e mondo della ricerca. Bisogna essere consapevoli che azioni mirate e puntuali per promuovere la ricerca e l’innovazione non sono sufficienti al cambiamento di passo che dobbiamo dare, ma devono essere accompagnate da interventi più ampi, sistematici e continuativi per renderle pienamente efficaci, modificando appunto le condizioni al contorno.
L’Italia continua a registrare un notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei in termini di investimenti nei settori della ricerca e dell’innovazione. Lei concorda con quanto affermano le istituzioni internazionali, secondo cui questo ritardo è attribuibile alla poca attività di ricerca realizzata nel settore privato? Crede che quest’ultimo investa insufficienti risorse, tanto finanziare quanto umane, nella ricerca?
Io tendo a pronunciarmi con grande prudenza sulle risorse, tanto umane quanto finanziarie, soprattutto quando se ne lamenta la scarsità: nel 2014 l’Italia aveva a disposizione 6,6 miliardi di fondi europei ed era in underspending (cioè in ritardo di spesa) del 66%, la Germania del 15%. Le risorse quindi c’erano ma non le stavamo usando adeguatamente. Per quanto concerne la dislocazione e l’impegno delle risorse ritengo che il nostro Paese abbia difficoltà nella programmazione e nella distribuzione meritocratica delle risorse, nonché a realizzare valutazioni di impatto tanto a priori quanto a posteriori.
E rispetto ai bassi tassi di investimento dei privati?
Su questo punto ci sono comunque tre elementi da tener presente: 1) non c’è visibilità di buona parte della ricerca e dell’innovazione che realizzano le imprese. Questo in particolare, per le PMI, che spesso neanche esprimono una domanda di innovazione, e l’innovazione fatta al loro interno non traspare nei numeri “contabili” perché non si struttura in modo formale. Possiamo andare a contare i brevetti e a vedere cosa fanno con il patent box, però la maggior parte della ricerca fatta dalle PMI non emerge e non viene formalizzata come tale, ad esempio perché non c’è una risorsa interna alle aziende che sia qualificata e che lavori come ricercatore, o anche perché non si è mai creato a monte un dialogo strutturato tra ricercatori delle università e impresa. 2) La dimensione e la struttura delle nostre PMI, che è mediamente minore delle omologhe europee e quindi la diversa struttura e organizzazione. 3) Il sistema della conoscenza, ovvero la capacità di trasferirla dai centri di ricerca alle imprese anche attraverso l’avvio di nuove imprese.
Stando ai dati Eurostat, l’Italia è uno dei paesi sviluppati con il minor numero di ricercatori. Come bene evidenziato dall’OCSE, ciò dipende essenzialmente dalla quota molto bassa di ricercatori che lavorano nelle imprese e nel settore privato. Qual è il problema sotteso alla persistente incapacità di creare una massa critica di ricercatori nelle imprese?
Io vivo in una Regione che spesso si è vantata di avere un alto numero di ricercatori che si attestava intorno a nove unità ogni mille abitanti. Se in questa Regione andassimo a chiedere alle imprese quali benefici hanno ricevuto dalla presenza di così tanti ricercatori credo che non riceveremmo la risposta che auspichiamo.
Il tessuto delle imprese in Italia è fatto per buona parte di piccole e medie imprese (circa il 95%) più o meno come in Germania, però le nostre aziende sono in generale più piccole rispetto a quelle tedesche: è evidente quindi che abbiamo un problema dimensionale. Inoltre buona parte delle nostre imprese (il 90% hanno meno di 20 dipendenti) non ha al suo interno personale laureato. Questa situazione incide ovviamente sia sulla capacità di domandare ricerca che di riceverla o svilupparla. Bisogna anche aggiungere che le PMI italiane sono in media meno internazionalizzate di quelle europee e tedesche: le aziende che hanno relazioni costanti con l’estero sono circa il 30% in Italia, mentre il livello medio dell’Europa è il 50%. Questa premessa implica che in Italia non c’è capacità da parte dell’impresa di valorizzare la ricerca: da un lato spesso non ne coglie l’importanza e dall’altro non riesce a essere attrattiva per il ricercatore in termini di prospettive di carriera e di realizzazione delle sue ambizioni. Questa è anche una conseguenza di alcuni errori del passato e della mancanza di una visione strategica e di medio periodo del nostro sistema Paese.
Può fare un esempio di questi errori o leggerezze commesse in passato?
Ad esempio, in Germania chi fa un dottorato di ricerca (PhD) lo fa con l’ambizione di andare poi a lavorare in azienda, mentre in Italia il dottorato di ricerca è nato negli anni Ottanta per fare una carriera esclusivamente accademica. Nel nostro Paese abbiamo quindi un ritardo di oltre trent’anni su questo tipo di “trasferimento tecnologico” che è un vero e proprio trasferimento di cervelli e competenze dalle università alle imprese e che crea fondamentali relazioni stabili tra impresa e sistema della ricerca. Se una impresa assume un ricercatore dall’università, quell’impresa continuerà a dialogare più facilmente con il sistema della ricerca e sarà più capace di produrre innovazione, quindi di essere competitiva, di crescere, di internazionalizzarsi. Questo è un elemento che a noi manca, che ci ha penalizzato rispetto agli altri Paesi e a cui occorre porre rimedio.
Il dottorato di ricerca industriale può essere un valido strumento per mettere in comunicazione imprese e università? Lo utilizzate all’interno del parco?
Non so se tecnicamente il dottorato di ricerca industriale sia la risposta esatta ai problemi di dialogo impresa-università, però certamente è una risposta che va in quella direzione, anche se non esaustiva. Bisogna anche far in modo che chi fa ricerca sia consapevole che di questi tempi il suo futuro se lo gioca nell’impresa: credo che solo un 5% dei dottorandi possa aspirare a fare carriera universitaria.
Il tema urgente è questo: il ricercatore è una figura che certamente occorre definire dal punto di vista contrattuale e normativo, ma che è necessario appagare anche dal punto di vista delle aspirazioni e dei percorsi di carriera. Da parte nostra (Friuli Innovazione) sistematicamente organizziamo incontri in cui ricercatori e PhD presentano alle imprese le loro attività (ad esempio l’iniziativa nata 5 anni fa PhD Expo, che facciamo insieme con l’Università di Udine, nella quale abbiamo portato più di 70 imprese a parlare con i dottorandi) e ne favoriamo l’avvio di progetti e collaborazioni. Spesso sentiamo interventi che esortano le imprese ad aggregarsi, fare rete, relazionarsi e internazionalizzarsi: questi sono elementi che magari un ricercatore può portare naturalmente all’interno di una azienda, perché chi fa ricerca è abituato a relazionarsi anche con colleghi stranieri e a lavorare in team internazionali. Nel nostro Parco Scientifico ci sono circa una trentina tra imprese, laboratori, startup e 200 persone, di queste circa il 30% ha un dottorato di ricerca.
Le piccole imprese che vogliono fare attività di ricerca e sviluppo come fanno? Devono per forza affidarsi all’Università o ai centri di ricerca? Esternalizzeranno la ricerca, come ipotizza qualcuno, attraverso le start-up? Le start-up saranno il futuro reparto R&D delle fabbriche?
Friuli Innovazione, che gestisce il Parco Scientifico e Tecnologico Luigi Danieli di Udine, non fa ricerca, ma promuove la cultura di impresa e la collaborazione tra imprese e il sistema della ricerca, con risorse che provengono esclusivamente da bandi competitivi (europei, nazionali o regionali) e proponendo in alcuni casi servizi specialistici di consulenza alle imprese. Questo lavoro ci consente di incontrare circa 350 aziende all’anno, prevalentemente medio-piccole. Certo a volte lavoriamo anche con le grandi imprese, ma queste meritano un discorso completamente diverso rispetto a quello che stiamo facendo. In generale le PMI ci spiegano quale iniziativa di ricerca industriale o innovazione vogliono sviluppare, ci indicano quelle che ritengono essere le loro criticità e noi cerchiamo di risolverle, aiutandole a strutturare meglio i progetti, a trovare le competenze e le collaborazioni necessarie, accompagnandole nella relazione con ricercatori e università, e supportandole nella ricerca di finanziamenti.
Certamente di recente sta emergendo questo fenomeno, ossia il tentativo di mettere in relazione imprese e startup, con una sorta di ibridazione. Ci sono ancora molte diffidenze qui da noi, ma le potenzialità sono straordinarie. Anche in questo caso, però, ciò che avviene in modo quasi naturale in altri Paesi non accade nel nostro e servono degli intermediari, che avvicinino questi due “mondi”, che li facciano incontrare, che esplorino le possibilità di collaborare. Alcune aziende ci chiedono già regolarmente di incontrare le nostre startup e ci sono diversi attori (incubatori, parchi scientifici) che realizzano questi percorsi. Il problema è che siccome siamo in Italia e spesso ci si muove per “mode”, di intermediari ne nascono tutti i giorni, anche il settore bancario propone i suoi o le sue piattaforme, e si fatica a individuare quelli che funzionano meglio da quelli che invece non sono in grado di realizzare questo lavoro. Io oggi dirigo un Parco Scientifico e Tecnologico ma onestamente preferirei vivere in un Paese che non abbia bisogno di un intermediario per far parlare la ricerca con l’impresa, tuttavia non passa giorno senza che ci sia una impresa che ci chieda esattamente questo. Un modello su cui occorre iniziare a ragionare è quello in cui le università siano davvero funzionali al proprio territorio, a rispondere alle esigenze delle imprese del territorio, con un meccanismo in cui gli stimoli siano reciproci, per rispondere alle sfide che sempre più rapidamente incontriamo nel quotidiano e nel Mondo.
Quanti ricercatori ci sono presso la vostra struttura? Come individuate e selezionate profili professionali coerenti con i vostri fabbisogni? Avete la percezione che nel vostro settore ci sia un “gap” di competenze tra quelle che richiedete per svolgere le attività/mansioni all’interno dell’azienda e quelle di cui i candidati che selezionate sono in possesso?
Noi facciamo un censimento periodico degli insediati, ovvero di coloro che operano con le loro organizzazioni all’interno del Parco. Al 31/12/ 2015 al Parco lavoravano circa 200 persone distribuite in una trentina tra imprese e laboratori. Questi numeri crescono in generale ogni anno tra il 10 e 15%. Delle persone che lavorano qui circa il 30% ha un dottorato di ricerca, il 36 % una laurea specialistica, l’11% ha una laurea triennale e il restante un diploma. Nel Parco, circa il 65% ha meno di 40 anni, il 35% sono donne, il 65% uomini, in Friuli Innovazione questo rapporto è invertito. Friuli Innovazione non svolge attività di ricerca, quindi non assumiamo ricercatori. Veniamo però costantemente in contatto con ricercatori perché proponiamo alle imprese i loro lavori e le loro attività o perché i ricercatori si rivolgono a noi per valutare se e come avviare una startup. Da queste esperienze devo però evidenziare che un po’ di “educazione imprenditoriale” sarebbe comunque utilissima ai ricercatori, non solo a quelli che vogliono provare a creare la loro impresa, ma proprio a tutti. Molti di quelli che incontriamo sono persone straordinarie, per capacità, entusiasmo, professionalità. Seminare durante il percorso universitario, o anche prima, qualche “germe” di cultura di impresa potrebbe avere “effetti collaterali” sorprendenti. Basterebbe fare alcune lezioni all’università su come fare impresa, quali requisiti occorrano, come si valorizzino le conoscenze: per dare altre “chiavi di lettura” affinché gli studenti possano avere più chance nel mondo del lavoro. “Chiavi di lettura” che l’università e la scuola superiore oggi non danno, al di là ovviamente dei corsi di laurea aziendalistici. Ci è già capitato più di qualche caso di ricercatore che ha creato una startup, che ha sviluppato soluzioni interessanti per il mercato, ma che non ha saputo farle crescere, perché quando il ricercatore trova qualcosa di nuovo ha compiuto il suo compito e si mette a lavorare su qualcos’altro; l’imprenditore invece inizia a farci del business, e così dopo qualche tempo è ritornato in università e la startup è morta.
Quale contratto collettivo applicate?
In Friuli Innovazione, che gestisce il Parco, si applica il CCNL del commercio, io sono rimasto a quello dell’industria dal quale provenivo.
La struttura in cui lavora ha mappato le competenze presenti al suo interno? Sono state fatte previsioni dei fabbisogni professionali dei prossimi anni?
Sì. Tra l’altro pur essendo una piccola struttura (13 persone) ci siamo recentemente riorganizzati in termini di offerta di servizi per “mercati”, che per noi sono le “imprese” e i “progetti” che presentiamo prevalentemente su bandi europei, e per “competenze” in termini di risorse da impegnare nell’erogazione dei servizi. Il pool delle competenze serve anche per valutarne i requisiti di formazione e quindi monitorare l’acquisizione di nuove competenze. In questo momento abbiamo soddisfatto quelli che erano i nostri fabbisogni professionali con l’inserimento di due nuove risorse esperte: per i prossimi 12 – 18 mesi siamo a posto.
Il piano Industria 4.0 parla di competence center e digital innovation hub senza tuttavia fare riferimento a poli tecnologici, parchi scientifici e centri di ricerca. Quale ruolo avranno questi nella quarta rivoluzione industriale? Saranno coinvolti? Superati? Messi a margine? Rilanciati?
Vedo che in generale c’è una certa corsa ad accaparrarsi o a darsi l’etichetta di competence center o di digital innovation hub, o altro, spesso anche a discapito di contenuti, servizi e attività. Nascono e si trasformano molteplici soggetti che si candidano a tutto: innovazione, trasferimento tecnologico, specialisti di industria 4.0, e si fanno centinaia di convegni, spesso trascurando le implicazioni di questa trasformazione e le difficoltà che dovranno affrontare le imprese. In quanto ai ruoli la discussione ovviamente è aperta, anche all’interno della nostra Associazione (APSTI, Associazione Parchi Scientifici e Tecnologici Italiani). Senza dubbio Parco Scientifico e Tecnologico come termine è legato al passato, probabilmente anche a molte aspettative spesso disattese per incomprensione o per sopravvalutazioni. In generale le organizzazioni che conosco come Parchi sono radicate sui territori, in forte
relazione con le imprese, dialogano, ospitano o si occupano di ricerca e di nuova impresa, di innovazione e di trasferimento tecnologico, hanno relazioni internazionali, percepiscono in anticipo i “segnali deboli” e li trasmettono alla comunità e alla governance, cambiano continuamente perché il Mondo cambia continuamente. Vedremo chi e come giocherà davvero la partita Industria 4.0: se servirà solo ad accaparrarsi dei finanziamenti nasceranno certamente nuovi soggetti ben attrezzati, se servirà a rendere più competitivo il Paese non ci si fermerà davanti a nomi vecchi o nuovi. Dato che ha citato Industri 4.0, aggiungo una riflessione personale: Industria 4.0 comprende moltissime cose, anche diversissime tra loro. Mi sembra che da noi si stia riducendo a logiche di massima efficienza produttiva (il che ci metterebbe in concorrenza con una Germania che è partita su questo 4 anni fa) e poco dei nuovi modelli di business, che industria 4.0 abilita. Credo che questi possano aiutare un Paese che ha molto bisogno di vendere di più, piuttosto che produrre ancora meglio. Nella sintesi mi verrebbe da dire che forse non ci serve vendere una caldaia prodotta nella fabbrica “più 4.0 che c’è” quando gli altri non vendono più caldaie ma l’acqua calda che le loro caldaie producono… Per quel che riguarda Friuli Innovazione, al di là dell’etichetta “Parco”, che non mi è mai piaciuta, quello che nella sostanza cerchiamo di fare oggi rispetto alle trasformazioni di Industria 4.0 è aumentare il Quoziente Digitale del nostro territorio perché da questo dipende la competitività e lo sviluppo economico del sistema.
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT – Università degli Studi di Bergamo